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Contro l’europeismo reale, per l’Europa dei lavoratori

17 Maggio 2019

Pubblichiamo il testo della relazione tenuta da Stefano Poggi all’Assemblea Generale della Cgil Vicenza sulle prossime elezioni europee il 15 maggio 2019.

Per la mia generazione, la generazione dei giovani lavoratori, l’Unione Europea è una grande contraddizione. L’Unione Europea è quella che ci permette di fare i fine settimana di vacanze a Barcellona, ma l’Unione Europea è anche quella che con la sua austerità ci obbliga a emigrare a Londra per trovare un lavoro. L’Unione Europea è quella che ci ha permesso di “internazionalizzarci” portandoci in Erasmus, ma è la stessa che rende sempre più drammaticamente periferica la nostra terra. L’Unione Europea è il “Ce lo chiede l’Europa”, ma è anche il “Nel resto d’Europa non funziona così”.

Insomma, per la mia generazione, l’Unione Europea significa un groviglio di emozioni, sensazioni e posizioni difficilmente districabile. E infatti, quando poi diventa l’argomento di conversazione fra coetanei, difficilmente si manifestano posizioni intermedie o scale di grigio: chi ha più goduto di questa “apertura” continentale tende a difenderla a spada tratta, mentre chi invece non ha avuto alcun vantaggio o ben pochi vantaggi da essa tende invece a sottolinearne il carattere centralista e oligarchico. Insomma, la mia generazione si divide piuttosto nettamente fra chi “Vorrebbe che fossimo più europei” e chi “Vorrebbe che ci fosse meno Bruxelles” nella sua vita.

Nella mia personalissima esperienza, un evento è stato centrale nella mia concezione di Unione Europea: la crisi greca del 2015. Fino a quel momento, i lati positivi dell’integrazione europea erano stati parti integranti della mia vita: avevo potuto, fin da adolescente, viaggiare facilmente per il continente e compiere alcune esperienze che più che di studio erano state di svago e di crescita umana; nello stesso 2015, per altro, avevo potuto passare un periodo di studio a Parigi con il programma Erasmus. Certo, negli anni precedenti mi aveva più che infastidito quel ritornello di “ce lo chiede l’Europa” che aveva accompagnato le riforme dei governi dell’austerità (da Monti a Renzi, per capirci), ma niente che potesse seriamente incrinare la mia fede in questa Unione Europea.

Come tanti altri, d’altro canto, ero e rimango convinto delle necessità alla base dell’integrazione europea. La “collaborazione fra popoli” può sembrare uno slogan vuoto per chi – come la mia generazione – vede la guerra come un’evenienza lontana e quasi impossibile. Senza alcun dubbio, se oggi possiamo vantare un passato di pace in questo angolo di mondo, lo dobbiamo anche agli esperimenti di collaborazione fra stati come l’Unione Europea o – su scala ancora più vasta – le Nazioni Unite. Al tempo stesso, la fine della breve egemonia degli Stati Uniti sul globo, con l’emergere di un mondo multipolare, rende molto più necessaria di prima la creazione di un polo europeo che possa agire in autonomia e indipendenza non solo dagli Stati Uniti, ma anche dalla Russia e della Cina. Infine, è certo vero che la grande sfida del surriscaldamento globale necessita di strutture decisionali più ampie dei piccoli stati-nazionali europei. In questo senso, è bene ricordare che l’Unione Europea ha giocato negli ultimi anni un ruolo più che positivo in questo ambito, per esempio promuovendo l’importante accordo sul clima della conferenza di Parigi del 2015. Insomma, era e rimane a mio parere innegabile la necessità e l’utilità di procedere ad un’integrazione continentale in Europa. E fino al 2015, devo dire che non mi ero mai seriamente posto il problema di quanto questa  specifica integrazione europea rispettasse gli stessi principi che i suoi padri fondatori avevano stabilito.

Poi è arrivata l’estate 2015: è arrivata la crisi greca. È arrivato il caso di questo piccolo popolo piegato con cinismo ad un destino di impoverimento e umiliazione, colpevole solo di aver chiesto un’eccezione alla rigidissima e ideologica austerità imposta da Bruxelles. Di fronte alla sofferenza di una nazione intera che chiedeva di poter sperimentare una politica economica diversa, le autorità comunitarie (con il sostegno di quelle italiane, è giusto ricordarlo) non solo hanno fatto orecchie da mercante: hanno deciso di “far pesare” tutto il loro potere. Un potere non basato su una legittimazione democratica, un potere non derivato da una volontà popolare, ma dal peso e dalla forza stringente del denaro. La Grecia e il suo parlamento legittimamente eletto hanno così dovuto piegarsi ad una logica intimamente slegata dal concetto di democrazia, ai diktat di quella troika di cui tanto abbiamo sentito parlare negli ultimi anni: la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale e la Commissione Europea. Non a caso, due organismi espressione di un potere finanziario, e da un organismo – la Commissione Europea – che non rappresenta i popoli europei, ma solo i suoi governi.

Certo, qualcuno dirà, il debito pubblico greco non l’aveva fatto Bruxelles: l’aveva fatto Atene. Un ragionamento simile siamo d’altro canto abituati sentirlo quotidianamente dai commentatori italiani sul nostro, di debito pubblico.  E, chiaramente, il debito pubblico non si crea da solo, ed è un bel problema. Ma il punto non è se ci fosse o meno in quel momento un problema in Grecia: il punto è il modo in cui le istituzioni europee hanno affrontato il problema greco. E per me – come per molti altri – il modo è stato estremamente rivelatorio di quali effettivamente siano le logiche incarnate da questa integrazione europea. Delle logiche contradditorie, come già detto, che hanno sicuramente molti risvolti positivi, ma che in ultima istanza tendono a sostituire la sovranità democratica degli stati membri con una sovranità che non deriva il proprio potere da logiche democratiche ma da una forza economica ben rappresentata dalla “collaborazione” con il Fondo Monetario Internazionale, cioè il vero e proprio bastione dell’ideologia dell’austerità a livello globale. La crisi greca, insomma, mi ha fatto finalmente rendere conto della distanza fra l’Europa che vorrei e l’Europa che effettivamente è. Fra l’Europa dei padri fondatori e l’Europa dei vari Juncker.

La stessa logica greca si è poi manifestata in modo forte in Italia non solo in occasione dei vari “ce lo chiede l’Europa” già ricordati, per giustificare tagli sempre più profondi ai servizi pubblici, ma pure – in modo forse più grave – l’anno scorso, nella formazione del governo Conte. In quell’occasione, per chi non lo ricordasse, una serie di pressioni “informali” da parte delle autorità comunitarie e di non meglio precisati “mercati” spinsero il presidente della Repubblica Italiana a far ritirare il nome di Paolo Savona da possibile ministro dell’Economia in quanto “troppo euroscettico”. Un’ingerenza a mio parere assolutamente inaccettabile nei processi democratici di uno stato membro come l’Italia. E questo lo dico senza alcuna simpatia verso il governo Conte o verso il professor Paolo Savona, il quale (al di là della roboante propaganda leghista) più che come ministro della Repubblica verrà probabilmente ricordato dalla storia come uno dei presidenti di quell’enorme buco nero di risorse pubbliche che è stato il Mose di Venezia.

Ora, qualcuno potrebbe anche affermare che la sovranità democratica si può mettere in discussione, che può essere sacrificata a vantaggio – per esempio – di una politica economica rigorosa. Cioè, qualcuno potrebbe anche dire: “accetto che a decidere siano delle istituzioni non democratiche se questo ha dei vantaggi concreti”. È una logica che comprendo, e che spesso si sente fare anche a qualche intellettuale democratico (o presunto tale). Il problema, però, è che come sempre nella storia, se le decisioni politiche vengono prese da organi che non rappresentano il popolo, cioè che non sono responsabili di fronte al popolo, inevitabilmente le decisioni prese finiscono per fare gli interessi non della gente comune, ma dei grandi poteri economici. Perché se chi decide non è espressione del popolo, inevitabilmente le sue decisioni saranno influenzate da chi se lo può permettere, cioè da chi ha disposizione potere e denaro.

Anche così si spiega, per esempio, perché – contro ogni logica economica e di buon senso – le istituzioni europee hanno deciso di rispondere alla grande crisi del 2008 con una serie di ricette economiche basate sul taglio della spesa pubblica. Guardate, questa non è stata una scelta solo ideologica, anche se una certa ideologia liberale ha sicuramente avuto il suo peso nel determinarla. Tagliare la spesa pubblica, infatti, significa in primo luogo privatizzare e liberalizzare spazi dell’economia che prima erano regolati dalla logica del bene comune e non da quella profitto. Privatizzare e liberalizzare significa aprire nuovi spazi alla speculazione di quel mercato che secondo qualcuno dovrebbe “autoregolarsi” – salvo poi esplodere ciclicamente in crisi disastrose. Insomma, non si può spiegare l’austerità solo come un vezzo ideologico di qualcuno. L’austerità si può comprendere fino in fondo solo se si tiene conto di chi se ne approfitta materialmente. E chi se ne è approfittato in Europa e nel nostro paese dai tagli allo stato sociale e dalla deregolamentazione dell’economia sono stati la finanza e i grandi poteri economici. L’Unione Europea, questa Unione Europea, ha imposto un’ideologia economica non funzionale a presunti “interessi generali” come hanno cercato di farci credere: l’austerità è andata e va contro agli interessi della gente comune e dei lavoratori, mentre favorisce quelli dei privilegiati e dei grandi poteri economici. Questo dobbiamo averlo sempre in testa.

Anche così si spiega l’impennata della diseguaglianza nel nostro paese, come in tutto il continente. Anche così si spiega perché nel nostro paese il 60% più “povero” (cioè le classi popolari e medie: quelle rappresentate in questa sala) possiedono solo il 18,8% della ricchezza nazionale netta. Anche così si spiega perché l’1% più ricco del nostro paese possiede 240 volte la ricchezza detenuta dal 20% degli italiani più poveri. Da dieci anni a questa parte in questo paese si tagliano servizi pubblici e si comprime la spesa in una corsa insensata che per altro non abbassa il deficit, e questo è il risultato: i ricchi diventano sempre più ricchi; i lavoratori sempre più poveri e sfruttati.

Le politiche economiche imposte dall’Unione Europea non sono però l’unica stortura che questa integrazione europea ha manifestato dallo scoppio della grande crisi economica in poi. C’è anche un altro elemento su cui vale la pena riflettere, e che riguarda il processo di integrazione dei paesi dell’est nel mercato unico europeo. Questi paesi uscivano devastati dalla brutale transizione al capitalismo impostagli dal Fondo Monetario Internazionale negli anni ’90. Erano paesi con un Pil pro capite ridicolo rispetto a quello dell’Europa Occidentale e questa disparità avrebbe quindi invitato a maggiore prudenza. Perché invece si è deciso di ampliare senza alcuna gradualità l’Unione a est? A che interessi materiali ha risposto questa scelta politica? Non certo agli interessi dei lavoratori occidentali, che si sono trovati a dover competere al ribasso con dei lavoratori disposti a lavorare a prezzi irrisori, con una sicurezza sul lavoro ridicola e – dulcis in fundo – con degli standard ecologici grotteschi.

L’espansione a est dell’Unione Europea ha invece favorito i grandi gruppi economici e quegli imprenditori ormai slegati da qualsiasi logica di radicamento territoriale e vogliosi di portare le loro industrie dove i lavoratori erano meno pagati e – soprattutto – meno organizzati. A beneficiare di questo allargamento è stata poi l’industria manifatturiera tedesca e scandinava, che ha potuto delocalizzare nei paesi dell’Europa dell’est – cioè a due passi – le produzioni a minor valore aggiunto.

A questo proposito, vorrei menzionare un dato e un caso molto concreti, per non rimanere sull’astratto. Il primo dato è che oggi il salario medio dei lavoratori polacchi è più basso di quello dei lavoratori cinesi. E lo stesso discorso potrebbe essere fatto per molte aree dell’Est Europa: con la sola differenza che mentre la Cina è dall’altra parte del mondo, questi paesi sono ad un tiro di schioppo da noi e soprattutto sono dentro il mercato unico europeo. Ormai da molti anni, gli economisti fanno presente che un mercato unico non può reggere con una tale diversità al suo interno, cioè con dei lavoratori pagati in Polonia 300€ al mese per fare lo stesso lavoro che in Italia fa guadagnare 1500€.

Quanto sia perversa questa logica lo dimostra un secondo esempio, ancora più concreto e riguardante, purtroppo, un’azienda vicentina, la Lovato Gas. Un’azienda storica, con uno stabilimento nuovo di zecca ed efficiente dal punto di vista economico. Un’azienda delocalizzata da un giorno all’altro in Romania, dentro il mercato comune europeo, lasciando a casa decine di lavoratori altamente qualificati. Disperdendo così una ricchezza che andava ben al di là del solo valore economico dell’azienda, e che riguardava anche decenni di tecnologia e di maestranze. Ricordo ancora oggi le comparsate dei politici leghisti e “sovranisti” al presidio permanente dei lavoratori della Lovato. Tutti dicevano che la proprietà non poteva certo comportarsi in quel modo, che era uno scandalo. Nessuno, però, che mettesse in discussione le ragioni strutturali alla base di una delocalizzazione di questo tipo. Nessuno cioè che ponesse in dubbio quelle logiche di libero scambio che permettono agli imprenditori di spostare stabilimenti, merci e capitali senza dover rispondere non solo ai propri lavoratori, ma pure alle comunità locali e a chi le rappresenta. Guarda caso, i protagonisti di quelle comparsate tragicomiche sono gli stessi che oggi riempiono i comizi di “Prima l’Italia” e “Prima gli italiani”: sovranisti con i poveracci che cercano fortuna in mare, ma ben ossequiosi con quegli imprenditori che delocalizzano in Romania le nostre fabbriche.

L’allargamento a est ha favorito quindi chi aveva i capitali, lasciando esposto invece chi vive del proprio lavoro. In questo senso, questa integrazione europea ha fatto passare l’idea che sia naturale che non ci siano controlli o limiti allo spostamento di merci e capitali, a tutto svantaggio tanto dei lavoratori occidentali che hanno perso lavoro e diritti qua, quanto a svantaggio di quei lavoratori orientali costretti a lavorare in condizioni schiavistiche nei paesi in via di sviluppo. Si è fatta così passare l’idea che fosse inevitabile questa globalizzazione, una globalizzazione che al tempo stesso non pone alcun limite alla circolazione dei capitali e delle merci, mentre fa morire in mare quegli uomini e quelle donne che scappano proprio dalle conseguenze di questa economia sballata e delle sue diseguaglianze globali. In questa globalizzazione, le frontiere sono cose ben concrete per i poveracci, mentre sono diventate una mera linea sul mappamondo per i privilegiati e per i loro capitali in perenne fuga. È tempo di rendersi conto che i vecchi dogmi liberali, per cui il mercato si regola da solo e non deve essere controllato in alcun modo, hanno fallito miseramente. Il loro unico successo è stato dare più possibilità di arricchimento a chi era già ricco, più potere a chi aveva già potere.

Non dobbiamo quindi nasconderci che dietro all’europeismo di molti è facile rintracciare degli interessi sociali ristretti e che poco hanno a che fare con quelli dei lavoratori. E, guardate, questa semplice presa d’atto non implica mezzo passo indietro rispetto al nostro europeismo, che anzi, ne esce a mio parere rafforzato. Per essere concreto, faccio riferimento alla posizione recentemente assunta da Luciano Vescovi, presidente della Confindustria di Vicenza, in una lettera al quotidiano liberale Il Foglio. In questa lettera, Vescovi spiegava abbastanza chiaramente le ragioni del suo europeismo: l’Unione Europea per lui servirebbe soprattutto a garantire l’integrazione di quella che lui considera la “parte sana del paese” (il Nord-Est) nel mercato centro-europeo, ed in particolare in quello tedesco. E se questo non andasse bene – ha ribadito in un’intervista a Repubblica pochi giorni fa -, beh, cosa ci sorprendiamo che gli imprenditori veneti portano i loro investimenti e i loro capitali altrove? Chiaramente dietro questo europeismo si nasconde un interesse di bottega molto ristretto, anche se abilmente mascherato dietro alla retorica dell’interesse generale e territoriale.

Un europeismo questo che – verrebbe da dire – trasformerebbe volentieri il Veneto in un lander della Repubblica Federale Tedesca, archiviando senza troppi problemi la nostra unità nazionale. Una posizione che d’altro canto si rispecchia nell’appoggio totale che le oligarchie economiche venete hanno dato al progetto della cosiddetta autonomia regionale, un progetto capace di provocare (secondo l’analisi dell’economista Gianfranco Viesti) una vera e propria “secessione silenziosa” dal resto d’Italia. Un progetto questo che coraggiosamente la Cgil ha deciso di osteggiare, ben consapevole che se oggi ci sbarazziamo del sud, domani la logica è che lasciamo indietro le aree povere del nord e, dopodomani, a essere il vero obiettivo di questo egoismo sociale dall’alto saranno i diritti e le conquiste dei lavoratori, a partire dai servizi e dalla sanità pubblica.

Noi dobbiamo dire con forza che il nostro europeismo è diverso. Che il nostro europeismo non vuole spaccare l’Italia lasciando indietro chi è più debole. Dobbiamo affermare con determinazione che il nostro europeismo non serve ai grandi poteri economici e ai privilegiati, ma a chi vive orgogliosamente del proprio lavoro. Il nostro compito, di noi lavoratori, è quello di creare un europeismo al servizio di chi ogni giorno si sveglia presto per andare a lavorare e a produrre quella ricchezza, quelle merci e quei servizi che qualche imprenditore veneto pensa di produrre da solo grazie alla sua geniale “imprenditorialità”!

E allora, oggi lo stimolo che vorrei dare al mio sindacato, alla Cgil, è quello di perseguire con determinazione la via di un europeismo dei lavoratori. Non che questo lavoro non sia già stato iniziato, anzi. Ma come in ogni cosa si potrebbe sempre fare di più. Perché gli ideali che menzionavo all’inizio del mio intervento, oggi non potrebbero essere più lontani dalla realtà di questa integrazione europea. Dobbiamo renderci conto che oggi non basta più un generico “le istituzioni europee devono essere cambiate”, perché su quello sono tutti d’accordo: sovranisti, liberali, conservatori e progressisti. Oggi quello di cui hanno bisogno i lavoratori italiani e europei è che i sindacati, queste grandi organizzazioni di autodifesa popolare, scendano in campo con un’azione politica incisiva e concreta per cambiare le cose. Prendendo atto che l’integrazione europea – per come è stata fatta fino ad oggi – ha fatto principalmente gli interessi di chi sta in alto e non quelli di chi sta in basso. Ha fatto gli interessi dei poteri economici e delle oligarchie, non dei lavoratori e delle lavoratrici. Dobbiamo renderci conto che deve prendere atto che affermare questa semplice cosa non significa ripiegare nel nazionalismo o nel sovranismo, ma significa anzi dare la più forte risposta possibile a questi fenomeni. Dobbiamo renderci conto che senza essere franchi su cosa è oggi l’Unione Europea, sulle sue enormi storture, non potremo mai sconfiggere il sovranismo e il nazionalismo.

Se vogliamo veramente garantire un futuro al sogno dell’integrazione europea non possiamo che essere spietatamente critici nei confronti delle attuali istituzioni comunitarie. Non perché ci piace criticare o perché vorremmo tornare ai confini militarizzati al Brennero: ma perché questa è la più necessaria condizione alla formazione di un vero europeismo dei lavoratori e della gente comune. Prendere le distanze da quello che è stato, accettare anche un’autocritica rispetto agli errori compiuti, è il primo passo per andare avanti, per costruire un’Europa unita e solidale.

Paradossalmente, cosa vogliamo è già ben chiaro nei tanti e ben elaborati documenti del sindacato europeo: vogliamo mettere fine alla concorrenza sleale all’interno del mercato comune, mettendo in riga quei grandi paradisi fiscali che oggi sono i paesi cosiddetti “sovranisti” dell’est Europa (in primis quell’Ungheria di Orban tanto amata dal nostro ministro dell’Interno, dove oggi i lavoratori sono obbligati a fare gli straordinari senza possibilità di discussione). Vogliamo che si metta fine alla libertà galoppante che è garantita ai grandi capitali e alla finanza: le delocalizzazioni indiscriminate devono finire, perché ogni delocalizzazione non è solo una scelta economica che riguarda un’impresa: è una scelta politica che riguarda tutta una comunità. Vogliamo che venga messa fine alla politica ideologica dell’austerità che purtroppo è incastonata nei trattati costitutivi dell’Unione Europea e – da qualche anno grazie ad una maggioranza che andava da Bersani a Salvini – pure nella nostra Costituzione repubblicana. Vogliamo che la Commissione Europea sia dipendente non più dai governi nazionali, ma da un Parlamento rappresentativo dei popoli europei. Vogliamo che l’Europa sia un veicolo di pace e non di destabilizzazione dell’aree vicine, come purtroppo è stato recentemente con l’Ucraina, qualche anno fa con la Libia e negli anni ’90 con la Iugoslavia. L’integrazione europea rimane un grande strumento geopolitico: ma deve essere usato per la pace, non per portare la guerra dove non c’è.

Per mettere in campo questo ambizioso progetto politico di ricostruzione dell’Europa unita, il sindacato deve essere in grado di promuovere battaglie d’avanguardia. Deve essere in grado non solo di coordinarsi a livello continentale su singole vertenze come già fa, ma anche di promuovere scioperi di categoria e generali a livello europeo. Deve rivendicare con forza la fine delle intollerabili diseguaglianze salariali all’interno del mercato unico, nello stesso modo in cui il sindacato italiano negli anni ’60 del secolo scorso ha combattuto le disparità salariali che frammentavano il nostro paese.

Certo, mi rendo conto di quanto sia arduo coordinare l’azione di centinaia di sindacati sparsi per tutto il continente, ognuno con una propria sensibilità e le sue pratiche sindacali. Ma dobbiamo renderci conto che il sindacato è l’ultima arma veramente rimasta in mano ai lavoratori e alla gente comune per cambiare l’Europa. E ogni giorno che passa diventa più necessario e più impellente un europeismo dei lavoratori che sia alternativo tanto al sovranismo anti-popolare degli Orban quanto all’europeismo liberale dei grandi poteri economici. È chiaro a tutti che il solo luogo dove possa svilupparsi questo nuovo europeismo è il sindacato – dove già oggi si organizza la parte più cosciente e combattiva dei popoli europei.

Il 26 maggio noi tutti ci recheremo a votare per comporre il nuovo Parlamento Europeo. Ed è giusto, che nelle nostre preferenze, noi lavoratori teniamo ben a mente chi nel corso della sua carriera politica ha difeso i nostri interessi e chi invece – al di là delle chiacchiere – si è sempre fatto strumento degli interessi dei privilegiati. Votiamo, ma avendo ben presente che la battaglia per un’Europa solidale e unita è appena iniziata. Stiamo parlando di un’impresa storica, quella di invertire i rapporti di forza di un processo che ancora può essere raddrizzato, che ancora vale la pena tentare di raddrizzare. Un’altra integrazione europea è possibile, ma non possiamo aspettarci che a farla sia qualcun altro. L’unico modo per creare un’Unione Europea dalla parte dei lavoratori, l’unico modo per difendere i nostri interessi e i nostri diritti è con la lotta, è con l’azione politica dei lavoratori organizzati nel sindacato.

Sarà una lunga marcia. Ma è una marcia, io credo, che vale la pena percorrere.

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