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Intesa Veneta

30 Giugno 2017

L’annosa questione di Veneto Banca e di Banca Popolare di Vicenza pare finalmente giunta al termine. Sono lontani i tempi in cui il famelico Giuseppe Mussari, presidente del Monte dei Paschi di Siena, acquistava con un colpo di cornetta Antonveneta per € 9.000.000.000,00 (si legge novemiliardi), quasi il doppio del suo vero valore di mercato – lascio alla fantasia del lettore speculare su quale fine avesse un così scellerato acquisto. Nel 2017, a distanza di dieci anni, le banche venete si comprano alla modica cifra di € 1,00. Lungi dal voler fare della sterile demagogia, va sottolineato che dietro a quell’eurino si nasconde un investimento vasto e strutturato per garantire il risparmio e il servizio bancario a decine di migliaia di italiani. Il capro espiatorio son i cacofonici NPL (Non Perfoming Loans) o crediti deteriorati che, come le principali testate giornalistiche non si stancano mai di ricordarci, affossano il sistema bancario italiano e, di conseguenza, l’intera economia nazionale. Per i due istituti veneti i crediti non performanti ammontano a oltre 9 miliardi di euro, circa il 23,5% di quelli concessi. Quasi 1 credito su 4 è perduto. Non male. La contrazione del credito che da una decade spezza i reni a quello che storicamente è una delle aree imprenditorialmente più vivaci di tutta la penisola, non basta a giustificare delle performance così scadenti. Clientelismo, cupidigia, acquiescenza, immoralità e bieco cinismo dei vertici di queste banche – in primis Giovanni Zonin – hanno polverizzato i risparmi e gli investimenti di migliaia di famiglie e di piccoli imprenditori. Emblematico della disonesta rete in cui manager bancari e grandi imprenditori avevano imbrigliato la popolazione veneta è il caso delle iper-inflazionate azioni di Banca Popolare di Vicenza. La banca ne blocca il riacquisto nel 2014, quando ancora non era quotata in borsa[1]. Ma non per tutti è andata così. Alcuni grandi imprenditori e azionisti di rilievo sono riusciti a saltare dalla barca poco prima che affondasse. I fratelli Dallicani, la famiglia Morato, l’integerrimo Alfio Marchini, Renzo Rosso e Giuseppe Stefanel sono tra i pochi privilegiati a cui è stato concessa la vendita in extremis del proprio pacchetto di azioni. Insomma, se sei un padre di famiglia o un’anziana pensionata che ha ingenuamente (e a volte inconsapevolmente) investito i risparmi di una vita in azioni BPVi, aspettati di vedere polverizzati anni di sacrifici. Se invece ti chiami Renzo Rosso e sei a capo della Diesel sei certo non solo di poter vendere azioni per milioni di euro, ma anche di incassare lauti profitti (oltre 300.000 € in questo caso).

Ma torniamo alla fagocitazione da parte di Intesa San Paolo delle due banche venete. Una premessa fondamentale è che si tratta di una manovra puramente politica e fortemente voluta dal governo. Da anni i premier – mai eletti dal popolo italiano – che si sono susseguiti sullo scranno del potere hanno esercitato pressioni di vario tipo affinché si innescasse un accentramento del frammentato panorama bancario italiano[2]. La peculiarità del Bel Paese deriva da una miriade di casse di risparmio, banche popolari e istituti di credito locali di ridotte dimensioni che se da un lato sono molto più attente alle esigenze dei tessuti economici territoriali, dall’altro questi stessi interessamenti possono facilmente tradursi in conturbanti inciuci coi gangli di potere politici ed imprenditoriali. Mi sia concesso un breve inciso: se mio figlio di 10 anni è un vorace grassone, la soluzione non è fargli la liposuzione ma mostrargli i vantaggi di una dieta salubre (e non comprargli altre merendine). Se in una Repubblica Parlamentare il parlamento è piagato da corrotti, la soluzione non è destituire il parlamento ma eradicare la corruzione. Lo stesso discorso è estendibile a quella costellazione di banche locali che, prive di una regolamentazione e di un codice etico che fungano da struttura reggente, errano nel limbo degli interessi economici e delle convenienze politiche. Intesa SP invece con quest’ultima annessione rischia addirittura di avere una quota di mercato che sfora in alcune aree del Veneto la soglia del 30% fissata dall’antitrust. L’accentramento forzato del sistema bancario nazionale è dunque questione di espressa volontà politica della classe dominante. Un’ideologia che non può far contenti nemmeno i più sfegatati hooligans del libero mercato, spesso così accaniti contro l’intervento pubblico in economia da essere completamente ciechi alle nefaste conseguenze che i cartelli oligopolistici hanno sulla “libera e giusta” concorrenza. Ma tant’è, come già accennato, con quest’operazione il sempresulpezzo ministro Padoan assicura la stabilità dei mercati finanziari e il servizio bancario alle famiglie venete con – ci tiene a ribadirlo – il minor costo possibile. L’accordo prevede un’immediata spesa dello Stato di 5,2 miliardi[3] a favore di Intesa per preservare i suoi bilanci patrimoniali, ai quali si aggiungono garanzie per ulteriori 11,8 miliardi nel caso in cui alcuni dei crediti che la banca ha deciso di inglobare all’interno del proprio perimetro si rivelino di bassa qualità. A questo punto non resta che sperare in un’ineccepibile gestione dell’affare da parte dei dirigenti di Intesa San Paolo per evitare che si raggiunga la mastodontica cifra di 17 miliardi di euro.

Ma il cuore della manovra è un’opera di magia contabile da romanzo fantascientifico, un barbatrucco da cartone animato, un miracolo cristiano di moltiplicazione dei beni: con un colpo di bacchetta magica verranno create altre due banche, o meglio bad banche. Si tratta di fittizi contenitori in cui far confluire tutti i famosi crediti deteriorati di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza insieme a tutte quelle fetenti partecipazioni e attivi in putrefazione che ISP – che ha un ottimo fiuto – non ha alcuna intenzione di portarsi a casa. Indovinello: ma se Intesa non se le prende, a chi saranno mai assegnate le bad bank? Ovviamente graveranno sulle spalle della collettività. Ma non disperate, il carismatico Pier Carlo Padoan annuncia che auspicabilmente, forse un giorno, in particolari e favorevoli condizioni di mercato, quando Venere e Giove saranno allineati, l’Italia riuscirà a rientrare delle spese con la vendita degli avanzi che Intesa ha lasciato nel piatto. Insomma, se l’acquisto è di certo uno splendido affare per l’istituto privato, non pare che lo sia anche per gli italiani. Carlo Messina, ad di Intesa, è subito corso ai ripari dichiarando: “Questo del regalo è completamente sbagliato. Interveniamo per tutelare il risparmio, l’occupazione e le imprese”. Meravigliosi benefattori. Se poi ti garantiscono anche 17 miliardi di euro, è ancora più semplice spacciarsi per filantropi. Altra dichiarazione che lascia basiti è quella di Padoan, che non concepisce alcuna alternativa tra la “liquidazione disordinata” delle due banche o la loro acquisizione da parte di Intesa per 1€. La fossilizzazione sul dogma del “There Is No Alternative” è la mortificazione dell’intelletto umano e del progresso scientifico. Oltretutto, sarebbe bastato dare uno sguardo al più recente passato nostrano per rendersi conto che l’opzione di una nazionalizzazione degli istituti di credito in fallimento non solamente è percorribile, ma con ogni probabilità anche profittevole e socialmente utile. Il perseguimento di obiettivi più articolati del semplice raggiungimento del massimo profitto potrebbe avere molteplici risvolti; tra i quali – la butto lì – l’emarginazione della dimensione speculativa a vantaggio dell’economia reale.

Fermati, lettore, un secondo a pensare alle molteplicità di utilizzo di quei fondi pubblici drenati – in mancanza di possibilità di stampare moneta – tramite la onnipresente e sempre meno progressiva tassazione. Nel nostro paese ci sono oltre un milione di giovani disoccupati, disinnamorati e senza alcuna speranza nel futuro, che preferiscono emigrare in tristi paesi nordici per cementificare lo stereotipo del “italiano barista d’Europa” perché frustrati dall’immobilità sociale a cui sono sottomessi. Immaginate ora di poter stanziare lo stesso importo donato a garanzia di un istituto di credito privato come Intesa San Paolo, in un fondo pubblico che consenta credito a fondo perduto ai giovani sotto i 35 anni che intendono mettere a frutto un’idea osata solo nel loro cervello perché privi di capitali da investire. Chiamiamolo pure con un termine che puzza di renzismo: “fondo start-up”. Conti alla mano, lo Stato italiano con lo stesso importo regalato a ISP avrebbe potuto garantire a ciascuno giovane cittadino circa 17.000 € da investire in idee progettuali. Questa è solo una delle infinite elucubrazioni mentali in cui ci si può spendere; tutto fuorché l’ennesimo regalo ad un sistema defunto da un decennio e che non fa altro che affossare l’economia reale assieme alle vite di milioni di italiani. Voi privilegiati perché avete un lavoro dipendente, pensate a Intesa, Zonin, le banche venete e i loro compari le prossime volte in cui, guardando la busta paga, vi chiederete incazzati che fine facciano le esorbitanti trattenute dal vostro stipendio.

[1] La quotazione avviene nel 2016 e causerà un crollo vertiginoso del prezzo delle azioni.

[2] vedi Legge 33 del 2015 con la quale si impone la trasformazione coatta in Società Per Azioni a tutte le banche popolari con più di 8 miliardi di attivi

[3] I 5,2 miliardi di euro sarranno attinti dai 20 miliardi già stanziati come regalo di natale a MPS per l’eventuale ricapitalizzazione e saranno così composti:

– 3,5 miliardi per evitare che gli indici patrimoniali di Intesa SP risultino intaccati dall’operazione.

– 1,3 miliardi per la gestione del personale in esubero (pre-pensionamenti di massa).

– 0,4 miliardi a garanzia dei potenziali rischi connessi agli attivi che ISP decide di accollarsi.

 

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