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A 5 anni dagli accordi di Parigi sul clima: per un necessario cambio di paradigma

12 Dicembre 2020
L’accordo di Parigi sul clima compie 5 anni. Era il 12 dicembre 2015, quando oltre 180 paesi convenivano sulla necessità urgente di contenere l’aumento delle temperature globali. Eppure, la nostra atmosfera non se ne è accorta.. 25 conferenze per il clima non sono riuscite a ottenere un andamento che possiamo considerare sostenibile, che non metta a repentaglio la società umana in un futuro che ormai non è nemmeno troppo remoto, come ci mostrano i sempre più preoccupanti valori che vengono registrati dal NOAA. Questo non vuole sminuire l’impegno di chi si è coinvolto in modo sincero, e spesso faticoso, in quelle estenuanti trattative di “diplomazia climatica”, ma dopo quasi tre decenni di diplomazia ambientale, dopo centinaia di trattati internazionali firmati dai governi per cercare di contenere i trend ambientali più preoccupanti, occorre fare dei bilanci e cercare di ricavarne delle riflessioni.
Può essere utile tornare a quel Summit di Rio de Janeiro in cui l’umanità iniziò a confrontarsi sulle questioni riguardanti il Pianeta. Rimase celebre, in quel consesso, una frase del presidente USA George Bush, che sentenziò “lo stile di vita americano non è negoziabile” (the american way of life is not negotiable). Questa frase ha giustamente generato sdegno perché quello stile di vita americano non è sostenibile: non è esportabile ai quasi otto miliardi di abitanti del pianeta, a meno di avere a disposizione altri 4 pianeti, non è estendibile nel tempo alle future generazioni, che si troveranno ad affrontare condizioni più complicate che si tradurranno anche in un minor benessere, a causa delle scelte pregresse. Eppure, se guardiamo bene, gli altri paesi della terra, in modo meno tranchant e meno sincero, hanno ragionato esattamente come Bush senior. Non si discute delle cause, cioè gli stili di consumo, di produzione, di mobilità, di sfruttamento delle risorse, si discute al massimo delle conseguenze. Siamo d’accordo che vogliamo ridurre le emissioni di CO2, siamo d’accordo sul fatto che vogliamo che le temperature non aumentino, che i mari non si alzino. Ma voler ridurre la temperatura del termometro senza affrontare le cause della febbre, porterà sempre a un fallimento. In questo l’accordo di Parigi ha un limite evidente: un accordo non vincolante, in cui si ragiona non più come ai tempi di Kyoto in termini di emissioni, che già sono conseguenze dei modelli di produzione, ma in termini di temperature, cioè di conseguenze delle conseguenze.
Ancora prima di Parigi, già negli accordi di Kyoto c’era un tarlo: essi ci ponevano la questione in termini di emissioni “prodotte”: ridurre le emissioni a livelli del 5% inferiori a quelle del 1990. Molti paesi lo hanno fatto, tra questi l’Italia, che oggi nominalmente rispetta largamente gli accordi di Kyoto, come buona parte degli altri paesi europei. Perché nominalmente? Perché conteggiamo le emissioni dei singoli paesi in base alla produzione e non al consumo. Forse qualcuno ritiene che la drastica riduzione di emissione di CO2 sia legata a una maggior efficienza tecnologica, alle lampadine a led, alle attuali automobili con migliori prestazioni eccetera. Sostanzialmente questi cambiamenti sono stati ininfluenti, perché nonostante motori più efficienti le auto sono oggi di più e sono in media più potenti che nel 1990, nonostante lampadine a basso consumo la domanda elettrica è molto superiore, come è superiore di allora la domanda di metano, di legname, di quasi tutto. Come si spiega dunque la drastica riduzione, circa un quarto, delle emissioni “nostrane”? Perché molte delle filiere produttive sono state spostate, si sono delocalizzate.
Iniziare a conteggiare le emissioni a partire dai consumi anziché dalla produzione, aprirebbe un cambio di prospettiva notevole, sarebbe una vera rivoluzione copernicana. Ma questo approccio, oltre ad essere più complesso (è più facile conteggiare quanta CO2 si emette producendo una tonnellata di acciaio, che conteggiare quanto si emette acquistando un’automobile), potrebbe portarci a delle spiacevoli sorprese. Scopriremmo che l’Europa è meno virtuosa di quanto pensiamo; che alle circa 6,5 tonnellate di CO2 procapite annue ne vanno aggiunte altre. Potremmo scoprire che i paesi del sud Est asiatico e la stessa Cina sono molto meno “sporchi”, meno insostenibili di noi, e che adesso sembrano peggiori soltanto perché sono divenuti la manifattura del mondo. Potremmo scoprire che non siamo affatto sulla buona strada, che a differenza di quello che ha affermato il sindaco di Firenze Nardella, l’Europa non sarà affatto il “primo continente carbon neutral”, ma che potrebbe essere tra gli ultimi.
Sarebbe una svolta dunque non indolore quella di spostare lo sguardo dalle conseguenze alle cause, perché probabilmente ci mostrerebbe come parzialmente illusoria l’idea di una soluzione esclusivamente tecnologica della crisi ambientale. Ma questa rivoluzione copernicana ci porterebbe a realizzare che è l’economia che dipende dalle basi fisiche e biologiche, e non il contrario, ci potrebbe portare a fare conferenze planetarie di tipo nuovo, in cui si discute di risorse limitate e di come condividerle equamente, di energia limitata e di come condividerla equamente.
Siamo oggettivamente lontani da questo approccio e dalla consapevolezza del rischio e della gravità della situazione, siamo lontani dal percepire che gli effetti della crisi climatica sono già qui, stanno già nei 264 eventi meteo estremi in una settimana di autunno in Europa (20 anni prima erano 4 nello stesso periodo).
Eppure senza questa svolta, senza il cambio di paradigma, la diplomazia ambientale rischia di divenire qualcosa di sempre meno efficace, e gli scenari futuri di divenire sempre più plumbei. Il cambiamento necessario è un compito enorme che deve coinvolgere e richiamare tutta la militanza politica, perché impedire un collasso ambientale e climatico è la sfida del nostro tempo.

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