Ricorre in questi giorni il quarantacinquesimo anniversario della caduta di Saigon, con la ritirata delle ultime truppe USA dal Vietnam e l’avvio del processo di riunificazione della penisola vietnamita ad opera dell’Esercito nazionale di liberazione e del Partito comunista. E se questo periodo di crisi pandemica, sociale ed economica ci offrisse una prospettiva privilegiata per comprendere la vera portata sistemica di quell’evento? Come abbiamo già scritto, in queste convulse settimane si cominciano a intravedere possibili scenari futuri di strutturazione di un nuovo ordine globale, la cui radice va ricercata anche e soprattutto negli eventi che quasi mezzo secolo fa sconvolsero non solo il sud-est asiatico ma l’intero pianeta.
Saigon e noi
La tesi che qui si vuole portare avanti è che, in primo luogo, l’evento segnò la spia dell’inizio di una crisi di egemonia degli Stati Uniti, una crisi che nei successivi 45 anni si è sviluppata in maniera non univoca, tra tentativi di ripresa (almeno sul momento apparentemente coronati dal successo – si pensi al decennio che va dall’elezione di Reagan alla casa Bianca alla caduta del Muro di Berlino al trionfo militare e diplomatico sancito dalla I Guerra del Golfo) e cadute rovinose. In secondo luogo, che quella crisi si ripercuote ancora oggi sullo scenario mondiale, ed anzi proprio oggi fa sentire i suoi effetti più inquietanti nella misura in cui riapre in termini feroci la sfida per l’egemonia mondiale tra grandi potenze, per la prima volta da quando un tipo simile di contesa fu chiusa dalla fine del periodo di guerre mondiali 1914-1945 – questo giudizio implica una relativizzazione postuma del ruolo esercitato in questo senso dalla guerra fredda, un capitolo che per ragioni di brevità in questo ragionamento deve essere tenuto necessariamente sullo sfondo.
Sempre per ragioni di brevità, il ragionamento che qui si svolge si baserà su di un breve e schematico raffronto tra due tesi divergenti, che tuttavia concordano su un punto, che è poi quello da cui si è preso le mosse, e cioè che la sconfitta del Vietnam segni l’avvio della crisi, o di una crisi, dell’egemonia globale statunitense. Rimangono fuori dalla discussione, cioè, quelle interpretazioni che invece rifiutano di assegnare alla sconfitta del Vietnam un carattere tanto determinante, o che negano che si possa parlare per gli ultimi 45 anni di un periodo di crisi dell’egemonia statunitense.
Secondo Giovanni Arrighi la sconfitta USA nel Vietnam, assieme ad altri fenomeni di natura sociale che proprio in quello stesso lasso di tempo prendevano campo nella società globale, rappresenta la spia del tramonto dell’egemonia statunitense e apre un periodo di caos sistemico, come ciclicamente accade nelle fasi di passaggio delle egemonie globali, destinato a chiudersi nel momento in cui un’altra potenza consoliderà la propria leadership. Secondo Michael Hardt e Antonio Negri la sconfitta USA del Vietnam, sempre assieme ad altri fenomeni di natura sociale che proprio in quello stesso lasso di tempo prendevano campo nella società globale, rappresenta la crisi finale di un tipo di imperialismo, quello legato alla modernità, alla sovranità moderna e alla guerra inter-nazionale, e spalanca le porte alla costituzione dell’Impero.
Dall’imperialismo all’Impero
Nell’interpretazione di Hardt e Negri, questo esito è in realtà iscritto nella nascita stessa degli Stati Uniti come Stato e nella loro Costituzione, un tipo di costituzione nuova, sempre sospesa a metà tra repubblicanesimo e impero. Una Costituzione a rete che si nutre fin dall’inizio di continui momenti neo-costituenti, nella rincorsa allo spazio aperto della frontiera, e predisposta proprio per questo carattere a farsi globale. Una costituzione che ben si presta a non essere rinchiusa nelle pastoie della sovranità imposte all’Europa dalla condizione di saturazione geopolitica e sociale in cui la modernità si era affermata nel vecchio continente.
Con la chiusura della frontiera avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento, questo potenziale di apertura della costituzione imperiale degli Stati Uniti avrebbe dovuto affrontare un primo ostacolo decisivo. Successivamente, il conflitto sociale e il desiderio di libertà della moltitudine riversatasi a ondate successive nel nuovo mondo non avrebbe più trovato sfoghi nell’espansione ulteriore in uno spazio aperto; il potere costituente di questa spinta si sarebbe riversato su se stesso, i conflitti di classe si sarebbero esacerbati; dall’esito del trentennio di guerre mondiali sarebbe nata la rivalità con l’Unione Sovietica; il tramonto della potenza inglese e francese avrebbe lasciato agli USA il compito di gestire il mondo partorito dalla decolonizzazione; l’insieme di questi fattori avrebbe condotto gli Stati Uniti a sposare una strategia imperialista classica sul modello delle potenze europee tradizionali.
In questo quadro interpretativo, la sconfitta nel Vietnam avrebbe significato non tanto la crisi di una particolare egemonia mondiale, quella degli Stati Uniti appunto, ma la crisi definitiva di ogni ipotesi di egemonia globale basata sugli Stati-nazione e sull’imperialismo e lo spalancarsi dell’età dell’Impero; cioè a dire, la ripresa dell’originario progetto costituzionale americano dell’epoca della frontiera, applicato però su scala globale. Da allora in avanti, non ci sarebbero state più crisi inter-nazionali, ma una crisi continua dislocata però tutta all’interno dello spazio imperiale. Culmine e allo stesso tempo paradigma di questo processo sarebbe stata la I Guerra del Golfo.
L’interpretazione di Hardt e Negri si sviluppa in dialogo/polemica diretta con quella di Giovanni di Arrighi, a cui si addebita il mancato riconoscimento del salto di paradigma che il passaggio dall’imperialismo all’Impero comporterebbe (oltre che una scarsa attenzione alle dinamiche sociali operanti in questo passaggio, un addebito sommamente ingiustificato) dovuto alla visione ciclica fatta propria dallo stesso Arrighi.
Da un’egemonia all’altra
Nel suo studio comparato sulla strutturazione delle egemonie globali dal momento in cui, nel corso del XV secolo, cominciò a prendere forma il sistema-mondo capitalistico, Arrighi nota in effetti un sistema fisso di ricorrenze, nel passaggio dall’egemonia “genovese” a quella olandese, da questa a quella inglese e finalmente a quella statunitense. Una grande potenza strutturerebbe la propria egemonia sulla base di un sistema innovativo di impresa e di sviluppo militare, fino a quando la pressione della concorrenza internazionale e delle lotte dei lavoratori non giungono ad erodere i margini per il profitto. A questa erosione si sfuggirebbe con la finanziarizzazione dell’economia, una soluzione però destinata ad acuire le crisi sociali e sistemiche. Si aprirebbe dunque una fase di caos dal quale emergerebbe la successiva potenza egemonica.
Grazie all’impianto riformatore del New Deal del Presidente Roosevelt e soprattutto allo scoppio della II Guerra Mondiale (con il suo portato di piena occupazione e di boom delle imprese belliche e del loro indotto), gli Stati Uniti sarebbero emersi da una fase di caos sistemico come superpotenza. Ma il crollo delle economie e delle società europee, assieme all’espansione della minaccia sovietica, bussavano alla porta della prosperità americana. Allo stesso tempo, grazie alle fortuite condizioni verificatesi negli anni della guerra, le grandi multinazionali e le banche internazionali con sede sul territorio statunitense disponevano di una ricchezza tale da spingerle ad espandersi a livello mondiale con investimenti diretti all’estero. Il mercato interno non era sufficiente ad assorbire la produzione, per cui si verificava allo stesso tempo la necessità di incrementare le esportazioni; per questo c’era il bisogno che anche in Europa la situazione economica migliorasse, affinché ai tedeschi, ai francesi, agli inglesi e agli italiani fosse possibile acquistare merci made in USA.
Ad integrare poi gli Stati Uniti nello scenario globale concorreva poi una spinta politica, dal momento che la minaccia comunista minacciava il dispiegarsi a livello mondiale delle potenzialità della libera impresa. C’era dunque un forte interesse a che gli alleati godessero di un successo economico sufficiente a garantire il benessere delle popolazioni e a distoglierle da propositi rivoluzionari.Questo complesso gioco di interessi rendeva necessaria una ripresa del dinamismo economico dell’area non soggetta all’espansione sovietica, in primo luogo l’Europa occidentale ed il Giappone.
Queste aree iniziarono così ad avvantaggiarsi impetuosamente della protezione politica statunitense, dei capitali e delle tecnologie da lì importate, giovandosi allo stesso tempo di una manodopera a costo ribassato. Con il risultato che col passare del tempo i prodotti di quest’area del globo raggiunsero una qualità pari a quella nordamericana, con il vantaggio commerciale di poterli immettere sul mercato a prezzi inferiori.
Per il primo ventennio successivo al conflitto sembrò di aver trovato la quadratura del cerchio: “miracolo” economico in Europa e Giappone; sbocchi per gli investimenti e le merci americane; contenimento militare e sociale della minaccia comunista. Fu tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta che su questo senario idilliaco si abbatté la tempesta perfetta. Sfruttando i vantaggi competitivi sopra descritti, i prodotti tedeschi, giapponesi, italiani ecc. si fecero troppo competitivi rispetto a quelli americani, penalizzando fortemente l’industria della metropoli. Al tempo stesso, le conquiste in termini di salari e di welfare del movimento dei lavoratori cominciarono ad esercitare una pressione insostenibile sui profitti con conseguente scoppio dell’inflazione e crisi di investimenti. L’avvenuta decolonizzazione non solo apriva nuovi margini di manovra all’URSS a livello globale, ma comprometteva ulteriormente le capacità di guadagno dei grandi gruppi industriali: l’aumento dei prezzi delle materie prime, per lo più allocate nel “Terzo Mondo”, si aggiungeva ai maggiori salari ottenuti dai sindacati e alla tassazione necessaria a mantenere alti i livelli dello Stato sociale. Ciliegina sulla torta (avvelenata), l’escalation in Vietnam colpiva sia l’economia statunitense per l’eccessivo deficit a cui la costringevano le esigenze del riarmo, sia la legittimazione degli USA, impegnati in una aggressione brutale ad un piccolo stato indipendente in lotta per la propria unità nazionale, a proporsi quali garanti del mondo libero.
Il caos
Secondo questa interpretazione, dunque, la sconfitta degli Stati Uniti non rappresenta la fine dell’imperialismo o della contesa inter-nazionale in assoluto, ma l’apertura di una fase di caos sistemico come già era successo nelle fasi di tramonto delle precedenti potenze egemoniche globali. Il momento decisivo di questa parabola non sarebbe pertanto rappresentato dalla I Guerra del Golfo, come nella visione di Hardt e Negri, ma dalla II Guerra del Golfo, con le sue difficoltà a formare una coalizione internazionale sotto la leadership a stelle e strisce e a finanziarla.
La crisi del 2008-2012 e adesso quella che stiamo vivendo hanno fatto il resto, mentre la superpotenza cinese appare come un concorrente sempre più credibile nell’arena internazionale. Il resto è cronaca dei nostri giorni, ma i nostri giorni sono figli diretti di quelle giornate di Saigon di 45 anni fa, di quella foto degli elicotteri in fuga dal tetto dell’ambasciata americana di Saigon.