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Problemi e limiti dello sviluppo democratico in Italia (I)

7 Febbraio 2021

Nel 1956 la rivista socialista Mondo Operaio pubblicò una serie di articoli di Lelio Basso dedicati all’analisi delle tare strutturali e di lungo periodo della democrazia italiana. Lo storico esponente della sinistra socialista denunciava il carattere predatorio del nostro capitalismo; la considerazione, da parte delle classi dominanti italiane, dello Stato come strumento di spartizione dei propri interessi di parte; la necessità di avvalersi di un partito unico di governo da parte di una ristretta oligarchia, con gli strumenti della coercizione e del trasformismo. 

I procedimenti che hanno portato alla nascita del governo Draghi ci sembrano richiamare molto da vicino i problemi inerenti la nostra democrazia così come denunciati allora da Basso.

Da un decennio l’Italia è, almeno ufficialmente, una repubblica democratica. In quale misura però questa definizione, che era contenuta nel voto del 2 giugno e che la Costituzione ha più tardi solennemente consacrato nel primo articolo, sia diventata una realtà, in quale misura la democrazia sia diventata davvero sostanza della vita italiana, è argomento quotidiano di polemica politica. Le risposte che si possono dare a questo interrogativo sono indubbiamente diverse a seconda del grado di profondità a cui si spinga l’esplorazione: se ci si limita alla superficie dei fenomeni parlamentari, l’Italia può essere annoverata fra i paesi di democrazia borghese; se invece si analizzano le strutture della società italiana, o anche soltanto gli indirizzi politici della classe dominante e della sua prassi di governo, non è difficile scorgere su quali fragili basi poggi ancor oggi in Italia la convivenza democratica.

Questo contrasto fra apparenza e realtà esisteva in Italia, in misura diversa, anche prima del fascismo. Allora pochi avrebbero messo in dubbio che anche il nostro paese fosse avviato verso un sicuro sviluppo democratico, un po’ in ritardo su altri paesi, ma comunque destinato a percorrere la strada del “progresso”, la strada in cui prima o poi il capitalismo industriale stava avviando tutti i paesi del mondo. Non bastò neppure il trionfo del fascismo a far mutare opinione alla maggior parte dei politici italiani educati nel clima precedente; piuttosto che dubitare della “democrazia” italiana, preferirono considerare il fascismo come un fatto accidentale, come, una “parentesi”. Indubbiamente questa errata valutazione della reale situazione italiana ebbe conseguenze anche sulla condotte della lotta politica e sui suoi catastrofici risultati; cionondimeno ancora nel recente dopoguerra, Benedetto Croce sentì il bisogno di “protestare contro l’affermazione dell’allora presidente del consiglio Ferruccio Parri, secondo cui l’Italia prefascista non era stato un paese democratico. Lo stesso Gaetano Salvemini che pur dell’Italia giolittiana era stato critico severo, pubblicando qualche anno fa su “Ponte” uno studio intorno al problema se l’Italia prefascista fosse una democrazia, sentì il bisogno di apporre al titolo un prudente interrogativo.

Credo che rispondere a questa domanda, non solo per l’Italia prefascista ma più ancora per l’Italia di oggi, sia essenziale per chi militi nel campo democratico e, soprattutto, per chi militi in un partito che dell’edificazione di uno stato democratico secondo le grandi linee della nostra Costituzione dovrebbe fare il proprio compito principale in questo periodo storico. Non quindi da un punto di vista accademico, ma proprio sotto un profilo pratico – pratico in senso marxistico – vorrei invitare all’approfondimento di questo problema, cioè allo studio storico dello sviluppo democratico italiano, alla ricerca degli ostacoli strutturali e delle loro manifestazioni sovrastrutturali che questo sviluppo ha incontrato e che devono essere rimossi, se ancora persistono, per avviare a risultati fecondi la lotta politica dei prossimi anni.

Sono soltanto alcune note introduttive al problema che io mi propongo di tratteggiare in questo articolo.

Il primo aspetto del problema che mi sembra opportuno considerare è un aspetto comparativo: quali siano cioè le condizioni che hanno consentito, in altri paesi, uno sviluppo democratico borghese. A mio giudizio, e, naturalmente, semplificando per ragioni di spazio, queste condizioni si possono così riassumere.

Una democrazia può sussistere solo in un paese in cui l’intiera collettività sia sostanzialmente d’accordo sul principi che reggono l’ordine politico-sociale esistente, giacché, se vi fosse un contrasto profondo, un radicale disaccordo, se mancasse unità di linguaggio e di spirito, non sarebbe pensabile un alternarsi di opposti partiti al governo della cosa pubblica. In altre parole, perché sussista un regime democratico, è necessario ché vi sia generale accordo sui principi fondamentali, e che il disaccordo cada soltanto su particolari aspetti e indirizzi di politica. “Nessuna democrazia potrebbe rimaner sana se i principi dell’azione divengono così diversi fra le diverse classi della società, perché è l’essenza stessa della democrazia che i principi della azione debbano essere posseduti in comune da tutte le classi che contano” (Laski).

Ciò può avvenire agevolmente in una società senza classi in cui gli uomini si sentano solidalmente uniti per il raggiungimento di fini comuni, ma è molto più difficile in una società divisa in classi antagonistiche, come la società capitalistica. Ciononostante alcuni paesi capitalistici hanno avuto uno sviluppo democratico, ma questo è stato possibile solo lo là dove un forte sviluppo economico ha da un lato reso possibile alle masse di acquistare forza, compattezza e coscienza dei propri diritti, e dall’altro ha consentito alla classe dominante, grazie ai larghi margini di profitto, di soddisfare tutte le fondamentali esigenze dei lavoratori, elevandone il tenore di vita, mentre in mezzo a queste due classi antagonistiche ha fatto sorgere e fiorire un vasto ceto medio di insegnanti, professionisti, giornalisti, letterati, tecnici, impiegati, uomini politici, che hanno assunto il duplice compito di elaborare in termini ideologici la difesa dell’ordine esistente e di inquadrare in quest’ambito, e sulla base di questi principi, la soddisfazione delle esigenze delle classi dominate. E poiché queste esigenze crescono continuamente e devono continuamente essere soddisfatte almeno in parte, e poiché d’altra parte lo sviluppo e la complessità della vita moderna esigono sempre nuovi compiti di cultura e di propaganda, che si traducono nella necessità di impiegare sempre più vaste categorie di intellettuali e di ceti medi in genere, ne risulta necessariamente che “una democrazia politica ha bisogno per essere solida di un’economia in via di espansione” (Laski). “Ciò che apparve con evidenza nel periodo fra le due guerre, è che le istituzioni democratiche erano funzione di una economia di prosperità. Se non si ammetteva ciò, la contraddizione fra le conseguenze del capitalismo e della democrazia non poteva essere superata”, (Laski). Studiando i problemi connessi al sorgere di nuove democrazie borghesi nei paesi già coloniali, il Bailey è arrivato ad una conclusione analoga: “In passato gli stati potevano mantenere lo standard di vita a un livello bassissimo durante secoli o addirittura millenni. Ma oggi si può considerare che lo stato parlamentare che non può offrire ai suoi cittadini la realtà o almeno la ferma speranza di un livello di vita migliore, discredita la democrazia e l’espone all’attacco immediato del comunismo o del fascismo. Certo, la creazione simultanea di un governo parlamentare e di uno stato prospero è un compito arduo, poiché essa necessita ad un tempo di un’amministrazione importante e addestrata e di una popolazione unita, intelligente e disciplinata con un senso acuto dei doveri civici”.

Questa breve premessa ci chiarisce subito che il primo importante limite che uno sviluppo democratico ha incontrato in Italia è precisamente l’insufficiente sviluppo economico. Di questo ritardato sviluppo economico, le ragioni principali sono note: le grandi scoperte geografiche e i grandi viaggi dei secoli XV e XVI hanno spostato dal Mediterraneo all’Atlantico il centro di gravità del commercio mondiale e aperto la via alla decadenza economica dell’Italia proprio nel momento in cui, grazie soprattutto all’afflusso di metalli preziosi dall’America e all’incremento della ricchezza mobiliare e dei traffici, l’economia degli altri paesi subiva un notevole impulso. L’Italia si trovò così a poco a poco distanziata nel processo di sviluppo dell’economia capitalistica, e la sua progressiva decadenza nel commercio mondiale fu ulteriormente aggravata dalla divisione in tanti piccoli stati, che paralizzava anche il commercio interno togliendogli la possibilità di disporre di un grande mercato, e ostacolava così lo sviluppo della produzione. Si aggiunga la scarsa fertilità del suolo e la natura accidentata del terreno, principalmente montagnoso e collinoso, con la conseguenza di una agricoltura povera, che avrebbe avuto bisogno, per progredire, di grandi investimenti di capitale.

Ma questo concorso di circostanze fece sì appunto che l’Italia si trovasse poverissima di capitali nel momento in cui negli altri paesi sopravveniva la rivoluzione industriale, e, per di più, quasi interamente sfornita, nel sottosuolo, di materie prime utilizzabili a scopo industriale. Perciò l’Italia rimase durante tutto il Risorgimento e fino al compimento dell’unità un paese quasi esclusivamente agricolo, in ritardo di parecchi decenni sui paesi più progrediti. Renan osservava che la borghesia italiana aveva avuto allora il suo 1830, ma “in realtà – secondo uno studioso della agricoltura italiana, Ghino Valenti – lo stato economico dell’Italia fra il 1860 e il 1865 non era molto diverso da quello della Francia dal 1789 al 1804”, talché l’Italia poteva tranquillamente nel 1865 copiare il Codice Napoleone, senza sentire il bisogno di introdurvi articoli che disciplinassero i rapporti economici che nascono da una società industriale. E Vincenzo Porri, nel noto studio sull’evoluzione economica italiana, ha affermato che l’Italia, al momento dell’unità, “era in ritardo all’incirca di un secolo rispetto all’Inghilterra”.

Se l’esistenza di questo ritardo economico era pacificamente ammessa da tutti gli studiosi ed osservatori, non se ne traevano in genere conseguenze circa lo sviluppo democratico, se non, tutt’al più, quelle di un parallelo ritardo. Prevaleva l’opinione, a cui ho accennato in principio, che il capitalismo avrebbe dovunque creato condizioni di vita democratica; che la differenza fra i diversi paesi potesse essere solo di grado raggiunto o di ritmo di sviluppo, ma che il cammino da percorrere era comunque lo stesso e agli stessi risultati si sarebbe in definitiva pervenuti. Nella sua classica opera sulle “Democrazie Moderne”, Bryce si poneva appunto questo problema:

“Conviene considerare separatamente ciascun ordine di forze e di fatti, e quindi io mi propongo, in questo capitolo, di passare in rapida rassegna i tratti salienti del processo storico, onde si sono svolti i governi di tipo popolare. Qualche luce può in tal modo proiettarsi sulla questione: se la tendenza alla democrazia, ora largamente visibile, sia una tendenza naturale, dovuta ad una legge generale di progresso sociale. Se è così, o se, in altre parole, cause simili a quelle che hanno in molti paesi sostituito il governo dei molti a quello di uno o dei pochi, sono – perché naturali – probabilmente destinate ad agire anche in futuro, ci si può aspettare che la democrazia viva dove ora esiste, e spunti anche in altri paesi. Se, invece, all’opposto, queste cause, o talune di esse, sono locali, o transeunti, tale previsione sarà meno giustificabile”.

La risposta che noi possiamo dare a questo quesito è totalmente diversa da quella che si soleva dare cinquant’anni fa, prima dello scoppio della prima guerra mondiale. In primo luogo, se consideriamo, come abbiamo accennato, lo sviluppo economico e il miglioramento delle condizioni di vita dell’intiera popolazione un elemento indispensabile per uno sviluppo democratico, dobbiamo ammettere che condizioni favorevoli allo sviluppo economico come quelle che si sono verificate nei paesi anglosassoni, e che hanno consentito alle classi dominanti di questi paesi di garantire condizioni privilegiate ai loro lavoratori rispetto a quelle di tutti gli altri paesi del mondo, non si ripetono per i paesi in ritardo di sviluppo.

Non solo infatti in questi paesi manca, come si è rilevato per l’Italia, quell’accumulazione originaria di capitale, che fu premessa fondamentale della rivoluzione capitalistica; ma le condizioni esterne che hanno favorito lo sviluppo dei primi paesi capitalistici si sono gradualmente rovesciate per i successivi. I primi paesi capitalistici, proprio per il fatto che erano i primi, avevano a propria disposizione enormi possibilità di espansione derivanti dall’esistenza di paesi agricoli e di mercati coloniali, verso cui potevano dirigere la loro produzione esuberante o i loro capitali e da cui potevano trarre derrate agricole o materie prime industriali, e ciò sulla base di termini di scambio largamente favorevoli anche per la mancanza di qualsiasi concorrenza internazionale, con il risultato di prezzi industriali crescenti e di profitti inflazionistici che hanno potuto alimentare un ritmo di sviluppo eccezionale. Così eccezionale che Hicks ha potuto avanzare l’ipotesi che “forse l’intera rivoluzione industriale degli ultimi 200 anni non è stata altro che un enorme boom secolare”, e Maurice Dobb ha affermato che la rivoluzione industriale inglese e lo sviluppo americano sono da considerarsi “casi speciali”, conseguenze di trasformazioni e saggi di sviluppo che devono ritenersi anormali e transitori anziché normali e durevoli.

Non occorre essere economisti per rendersi conto che i paesi giunti più tardi allo sviluppo economico hanno trovato una quantità sempre minore di mercati vergini e di paesi coloniali, e hanno viceversa dovuto subire una sempre più forte concorrenza internazionale da parte dei paesi più sviluppati, in modo da rendere sempre più difficile il proprio progresso economico e l’elevamento delle condizioni interne di vita. La situazione si è anzi a tal segno rovesciata che un economista come il Nurske può tranquillamente affermare che oggi i paesi sottosviluppati, ove lasciassero operare il gioco delle forze automatiche che agiscono all’interno del sistema, finirebbero con l’essere condannati ad una condizione permanente di “equilibrio di sottosviluppo”.

Viene così a mancare ai paesi ritardatari la premessa indispensabile di uno sviluppo democratico, e cioè una situazione di prosperità rapidamente crescente che consente alle classi dirigenti una politica di concessioni e favorisce così l’inserimento delle masse lavoratrici nella vita dello stato borghese. Ma, mancando questa prima condizione, tutto il ritmo di sviluppo politico ne risulta profondamente diverso rispetto al modello dei paesi a democrazia borghese.

In questi ultimi, cioè nei paesi in cui il capitalismo si è sviluppato dalla società preesistente, attraverso un’adeguata preparazione storica realizzatasi in serie di trasformazioni successive, i rapporti di forza fra le classi sociali si sono anch’essi sviluppati attraverso una serie di mutamenti e scosse, ma in modo da non distruggere mai l’equilibrio fondamentale della società capitalistica. I vecchi rapporti sono stati distrutti, molti ceti legati alla società precapitalistica (artigiani, bottegai, ecc.) sono stati schiacciati, e in parte gettati, insieme con masse crescenti di contadini, nelle file di un proletariato miserabile, male pagato e intensamente sfruttato. Ma questi ceti travolti ed oppressi potevano reagire solo con moti disorganici, magari violenti ma senza possibilità di successo definitivo, perché mancavano di esperienza, di organizzazione, di coscienza politica e anche di reale forza sociale. E se è vero che progressivamente crescono esperienza, organizzazione, coscienza e forza delle masse, se è vero che il proletariato industriale, a misura che cresce di numero, cresce anche di potenza sociale, non è men vero che ciò avviene nel quadro di una società capitalistica che è essa stesa in espansione.

Si irrobustiscono cioè, in pari tempo, economicamente e politicamente, le classi dominanti, sicché diventa possibile da un lato migliorare gradualmente le condizioni di vita degli operai, a misura che più alta si fa la voce delle loro rivendicazioni, sì da attenuarne lo slancio rivoluzionario grazie a una politica di sapiente riformismo, e, dall’altro, riassorbire nei nuovi impieghi offerti dallo sviluppo capitalistico i ceti medi rovinati, trasformando in impiegati, in funzionari, in giornalisti, insegnanti, amministratori pubblici, ecc., i figli dei bottegai e degli artigiani, e facendo di una classe inquieta un elemento di stabilità del nuovo regime. Si realizza così il compromesso liberale-democratico, che è il segno di un equilibrio raggiunto: equilibrio naturalmente instabile, per l’essenza stessa della società capitalistica, ma che deve sempre essere ricomposto se si vuole mantenere il regime democratico, la democrazia borghese essendo in ultima analisi il riflesso in sede politica di un determinato equilibrio economico-sociale.

Molto più arduo e complesso si è presentato invece questo processo nei paesi giunti in ritardo alla rivoluzione industriale, e nei quali la trasformazione della società in senso capitalistico è stata frutto più di compromessi che di ascesa rivoluzionaria in cui lo sviluppo sia della ricchezza che della mentalità borghese è stato necessariamente più lento. Non è un caso che in Germania, Italia e Giappone, paesi giunti più tardi alla rivoluzione industriale, la democrazia abbia avuto basi così deboli e che i tre paesi si siano poi trovati allineati su uno stesso fronte antidemocratico.

In questi paesi infatti la trasformazione capitalistica è stata solo in parte frutto della situazione storica precedente, mentre in parte – maggiore o minore a seconda dei paesi – è stata frutto di imitazione e di importazione dall’esterno. Perciò essa ha distrutto l’equilibrio della vecchia società precapitalistica prima di aver assicurato le condizioni del proprio autonomo sviluppo, ha creato nuovi rapporti di classe e nuove tensioni sociali senza i necessari fattori di ammortizzamento e di riequilibramento, e ha perciò provocato delle situazioni di permanente squilibrio che sono incompatibili con un ordinamento democratico-borghese.

In particolare si è verificato un accavallamento di situazioni storiche, perché il capitalismo si è sviluppato accanto a un’agricoltura ancora precapitalistica, e la frase degenerativa dell’imperialismo è giunta prima che il capitalismo si fosse dispiegato in tutta la sua potenza. Ciò ha fatto sì che situazioni economiche e rapporti sociali di epoche diverse si sono trovati giustapposti o addirittura intrecciati, con il risultato di provocare da un lato una somma di spinte rivoluzionarie (quella liberale-borghese contro le forme residue precapitalistiche, quella contadina per la riforma agraria, quella democratica per il suffragio universale e contro il dominio chiuso dei ceti privilegiati, quella operaia contro lo sfruttamento capitalistico) e dall’altro una somma di controspinte di tipo feudale teocratico e capitalistico per frenare il temuto progresso.

Ognuna di queste spinte e controspinte trae alimento non solo dalla propria esperienza, ma anche da quella dei paesi più progrediti: così le classi dirigenti traggono, dalla paura anticipata delle possibili conseguenze dell’industrialismo e della formazione del proletariato, nuovo incitamento ad opporsi alle riforme, e viceversa i nuovi proletariati nascenti, classi lavoratrici senza esperienza storica, dal confronto con le condizioni di vita di altri paesi e di altri proletariati, sono spinti a sentire maggiormente il peso dell’oppressione. Così i criteri organizzativi e le dottrine politiche, che sono stati faticosamente elaborati e messi a punto attraverso decenni di lotte delle più antiche classi operaie, diventano patrimonio di proletariati di recente formazione; così le tecniche moderne di governo e i mezzi repressivi studiati e affinati nei paesi progrediti sono messi a disposizione dei vecchi signori feudali.

Dalla diversa combinazione di questi elementi, dalla maggiore o minore rapidità di assimilazione delle armi moderne di lotta politica, e dalla loro maggiore o minore incidenza nelle situazioni di tensione e nei nodi di sviluppo creati da questi accavallamenti storici, possono derivare sia delle soluzioni radicalmente rivoluzionarie come nella Russia zarista o nella Cina di Ciang Kai-scek, sia per contro dei regimi dittatoriali e fascisti, o, infine, le altre svariate forme pseudo- democratiche di cui l’America Latina e il Medio Oriente ci hanno offerto innumerevoli esempi.

In quale direzione si sian fatti sentire in Italia questi effetti del ritardato sviluppo, quali limiti abbiano posto al progresso democratico esamineremo rapidamente in un secondo articolo.

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