Paese

Problemi e limiti dello sviluppo democratico in Italia (II)

7 Febbraio 2021

Nel 1956 la rivista socialista Mondo Operaio pubblicò una serie di articoli di Lelio Basso dedicati all’analisi delle tare strutturali e di lungo periodo della democrazia italiana. Lo storico esponente della sinistra socialista denunciava il carattere predatorio del nostro capitalismo; la considerazione, da parte delle classi dominanti italiane, dello Stato come strumento di spartizione dei propri interessi di parte; la necessità di avvalersi di un partito unico di governo da parte di una ristretta oligarchia, con gli strumenti della coercizione e del trasformismo. 

I procedimenti che hanno portato alla nascita del governo Draghi ci sembrano richiamare molto da vicino i problemi inerenti la nostra democrazia così come denunciati allora da Basso. 

Qui pubblichiamo il secondo articolo. Per leggere il primo clicca qui

In quale direzione si sian fatti sentire in Italia questi effetti del ritardato sviluppo, esamineremo ora rapidamente senza pretendere, naturalmente, che siano questi i soli limiti e i soli problemi che si pongono all’ulteriore sviluppo democratico del nostro Paese.

Si può dire innanzi tutto che lo sviluppo della borghesia italiana, nel corso del suo ciclo ascensionale dall’epoca del dispotismo illuminato fino alla realizzazione di uno stato unitario a direzione borghese, sia stato dominato da una duplice influenza che derivava dall’estero, vuoi per raffronto con la situazione di altri paesi, vuoi per influssi ideologici o per stimoli economici. Da un lato un’influenza progressiva nelle intenzioni, anche se talora ingenua e magari dannosa, e cioè il desiderio di imitare esperienze più progredite, di trapiantare istituti, legislazioni, modi di pensare e sentire, di realizzare conquiste che avevano contrassegnato altrove una fase più avanzata di sviluppo. Dall’altro invece una tendenza apertamente reazionaria, cioè l’esagerato timore di subire le scosse e i contraccolpi di agitazioni e rivoluzioni che altrove avevano accompagnato le fasi dello sviluppo, e quindi il desiderio di evitarli a costo anche di frenare il progresso, di mantenere in vita istituti e costumi del passato, di rinunciare a sostanziali vantaggi.

Da questa duplice tendenza, l’una diretta a precorrere le fasi del proprio normale sviluppo anticipando situazioni e soluzioni mutuate da esperienze straniere, nell’illusione che la imitazione di queste esperienze, fiorite altrove su ben altre basi, potesse produrre in Italia i medesimi effetti, l’altra diretta invece a ritardare e a frenare, è derivata, o quanto meno si è aggravata la situazione di permanente squilibrio dello sviluppo economico e politico del nostro paese, caratterizzata dall’apertura di problemi senza adeguate soluzioni, da fratture continue nella compagine sociale, da uno lato quasi permanente fra aspirazioni e possibilità.

Gli studi risorgimentali hanno già sufficientemente messo in chiaro queste tendenze. Da un lato è noto come le aspirazioni unitarie della borghesia italiana siano state in forte misura ispirate non già dall’insufficienza dei mercati dei singoli stati in relazione allo sviluppo già raggiunto dall’industria, non già cioè da una situazione economica in atto, da bisogni già effettivamente sentiti, da una capacità produttiva che premesse con forza contro le barriere che dividevano l’Italia in tanti stati e in tanti mercati. Fu piuttosto il confronto con il progresso raggiunto da paesi come la Francia e l’Inghilterra sulla base della unità nazionale conseguita da tempo, o la constatazione dell’impulso ricevuto dall’economia tedesca per effetto del processo di unificazione doganale in corso, che incoraggiarono la borghesia italiana sulla via dell’unità, nella speranza che dall’unità derivasse successivamente un’analoga spinta progressiva.

Sono le illusioni del laissez faire che alimentano tutte le speranze: la speranza che, abolite le barriere, l’espansione ne consegua automaticamente, la speranza che dal libero gioco delle forze economiche scaturisca senz’altro il benessere generale, la speranza che la libertà e l’unità siano la panacea di tutti i mali. Sono altresì le residue illusioni settecentesche che la diffusione di lumi farà crollare irrimediabilmente le forze dell’oscurantismo e della erazione e aprirà le porte a un’epoca di pacifico progresso e di soddisfazione per tutti. Sono, insieme, le illusioni sulle ricchezze del suolo e del clima, sulla feracità naturale, sulle possibilità fin allora compresse da regimi retrogradi, e che alimentano le più generose aspettative per il giorno in cui le idee moderne e i ceti che ne sono portatori avranno potuto trionfare.

Questo ottimismo, talora smodato e talora più sobriamente contenuto, anima quasi tutta la letteratura risorgimentale e fornisce le armi più efficaci all’idea unitaria. Se se ne eccettuano pochi scrittori, la grande maggioranza condivide la diagnosi dei mali d’Italia dovuti alla divisione, alla mancanza di libertà e all’oppressione straniera; tutti pongono l’accento sulle soluzioni politiche come rimedio anche ai mali sociali. Sotto questo profilo si può ben dire che la borghesia italiana di allora abbia troppo presunto di sé, illudendosi e illudendo le masse che la sua sola ascesa al potere in un’Italia unificata avrebbe rappresentato la soluzione di tutti i problemi. Lo stesso Cavour sul letto di morte diceva delle province meridionali: “Bisogna moralizzare il paese, educar l’infanzia e la gioventù, crear sale d’asilo, collegi militari… Io li governerò colla libertà, e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le province più ricche d’Italia”.

Eppure l’impresa garibaldina e l’unione del Mezzogiorno al resto dell’Italia avrebbero dovuto già aprire gli occhi su una realtà sociale che richiedeva ben altri rimedi. Doveva aver risuonato agli orecchi di molti, se non direttamente il suono certo il senso delle parole di quel frate Carmelo di cui racconta l’Abba: “La libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no”. E aveva aggiunto che ci vorrebbe “una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa”. E del resto, anche senza il Mezzogiorno, la restante parte d’Italia, dalla Sardegna alla stessa pianura padana, racchiudeva problemi sociali la cui soluzione andava ricercata ben al di là del semplice liberalismo.

Ma a guardare a fondo nella realtà, ad affrontare sul serio i problemi delle masse contadine e più tardi anche operaie, a mettere a nudo quella che si chiamerà la “questione sociale” e a considerarla realisticamente, si opponeva l’altra tendenza di cui abbiamo parlato, la paura che anche l’Italia avesse a subire i rivolgimenti che altrove, e soprattutto in Francia, avevano accompagnato il progresso economico e politico. Nell’epoca dei lumi, l’Italia colta era stata, più o meno, a livello europeo. Ma dopo la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, essa viene rapidamente superata dal ritmo del progresso. Ciò è dovuto in parte ai danni che l’occupazione e le guerre le han cagionato (ma le han portato anche dei vantaggi), in parte alla rivoluzione industriale che nei paesi più progrediti accelera il suo corso, ma in parte proprio alla paura che la rivoluzione ha lasciato nelle classi dirigenti. I vecchi regimi ritornati più reazionari di prima e presso i ceti borghesi è il moderatismo che prevale, anche – dice Venturi – per “timore di fronte alle masse contadine”. Ognuno sa come la principale preoccupazione dei moderati durante il Risorgimento fosse, più che il raggiungimento dell’unità italiana, quella di impedire che l’unificazione assumesse tono e ritmo rivoluzionario, e, peggio ancora, si inserisse in un contesto rivoluzionario europeo. Questa paura, accentuatasi dopo il biennio 1848-49, e soprattutto per riflesso delle esperienze francesi, dominerà i decenni della realizzazione unitaria.

L’Italia nascerà quindi da questo duplice atteggiamento, destinato a protrarsi e così a produrre e ad accentuare sempre più la frattura antidemocratica in seno al nuovo stato unitario: da un lato l’illusione e l’ottimismo borghesi, convinti, sulla base di false analogie con l’esperienza inglese e francese e, in parte, anche con quella tedesca, che l’unificazione e lo stato liberale avrebbero aperto inevitabilmente la strada all’espansione economica, alla ricchezza, al benessere, e, quindi, alla soluzione di tutti i problemi senza che vi fosse uopo di interventi o di programmi particolari; dall’altro la preoccupazione di tener imbrigliate le masse, di evitare contraccolpi e agitazioni, di obbligarle al silenzio fino a che il generale benessere non avesse automaticamente eliminato ogni causa di malcontento. Sulla base del primo orientamento si assumevano compiti sproporzionati alle proprie forze, che avrebbero richiesto un organismo ben più robusto e progredito; sulla base del secondo si frenava invece lo sviluppo, ci si aggrappava a forme superate, si rallentava la diffusione della cultura e del progresso tecnico. Da un lato si chiedeva al paese un passo troppo lungo e dall’altro gli si impediva di compierlo perché quel passo avrebbe scosso troppe cose. Si volevano i benefici del progresso ma non anche i sacrifici ed i rischi.

* * *

Queste premesse non potevano non influire negativamente sull’Italia post-unitaria.

In primo luogo è ovvio che, sull’ondata delle proprie illusioni, la classe dominante italiana dovesse sforzarsi di realizzare il più rapidamente e il più decisamente possibile l’unità del mercato nazionale, dovesse cioè sforzarsi di far seguire all’unificazione politica anche l’unificazione amministrativa e economica. Fu una vera ossessione unitaria quella che animò i dirigenti italiani dopo il 1860, ed essa si manifestò in tutti i campi. Fu innanzi tutto l’accentramento burocratico, e, con esso, l’uniformità legislativa e tributaria. Si imitava anche qui l’esempio francese, ma l’accentramento burocratico della vicina repubblica poggiava almeno su una tradizione plurisecolare, aveva dietro di sé l’opera unificatrice della monarchia, quella livellatrice della rivoluzione, quella codificatrice di Napoleone che avevano fatto veramente della Francia un organismo unitario e dell’amministrazione francese, sia pure con i difetti dell’accentramento, un organo funzionante. Ma in Italia l’unità politica era appena raggiunta dopo secoli di divisione; l’unità economica avrebbe potuto realizzarsi solo attraverso un lungo processo di cui mancavano ancora le condizioni; le tradizioni, gli usi, le risorse economiche, i mercati erano ancora legati alle diverse possibilità locali. “In un paese come l’Italia, scrive Carlo Morandi, dove la differenziatissima economia delle diverse parti, le tradizioni locali e la struttura cittadina non erano solo testimonianze superstiti d’un passato da cancellare, ma elementi positivi d’una varietà inalienabile ed ancora feconda di possibili benefici, il problema delle autonomie, o, come si disse, del decentramento, appariva vivo e concreto”. Sicché l’accentramento burocratico, la cosiddetta “piemontesizzazione” dell’Italia, si risolse nel soffocamento di ogni vita locale e di ogni autonomia comunale, sia sul piano economico che su quello democratico, e fu indubbiamente fra i più gravi elementi della frattura del paese, contribuendo a creare un diaframma fra la grande massa della popolazione e la vita statale che non si è ancora colmato.

Un altro aspetto dell’ossessione unitaria fu lo sforzo, superiore alle possibilità finanziarie del paese, di creare le condizioni dell’unità economica, attraverso un rapido estendersi della rete ferroviaria, una diffusione del sistema bancario, ecc. Ferrovie, strade e banche erano indubbiamente inadeguate alle nuove dimensioni statali, e senza un loro congruo sviluppo sarebbe stato impossibile fare veramente dell’Italia un solo mercato. L’illusione ottimistica, di cui abbiam parlato in principio, sugli effetti salutari dell’unità, spinse la classe dirigente a dissanguare il paese per la costruzione della rete ferroviaria: persino un amministratore oculato come il Sella affermava che in questa materia la celerità doveva passare avanti al risparmio. Del pari la fretta di allargare il sistema creditizio a tutto il paese, di introdurre la circolazione cambiaria anche nelle regioni arretrate del Mezzogiorno portò solo disordine e turbamento nell’equilibrio economico di quelle regioni che aveva già tante ragioni di instabilità.

Questo affrettato processo di unificazione, che avrebbe dovuto essere apportatore di tanti benefici, finì in tal modo con l’aggravare la situazione del paese. Si profusero centinaia di milioni nel baratro delle spese destinate alla costruzione dello stato unitario – dalle ferrovie alle caserme, dall’apparato burocratico all’ordinamento bancario – senza che ne seguisse il sospirato benessere. Si accrebbe la miseria senza che apparissero nuovi rimedi e nuove possibilità. Uno sviluppo squilibrato, una volontà tesa a raggiungere obiettivi che eran possibili altrove ma a cui mancavan da noi le premesse, poneva l’Italia nella situazione tipica di quei paesi che, come dice Marx con felice espressione, soffrono ad un tempo dei mali del capitalismo e dei mali dell’insufficiente sviluppo del capitalismo stesso.

Abbiamo già rilevato infatti che là dove il capitalismo si è sviluppato per forza interna, esso ha risanato almeno in parte i mali che ha cagionato e ha ristabilito l’equilibrio turbato. In Inghilterra la rivoluzione capitalistica ha cacciato via i contadini dalle terre per insediarvi le bestie, ma ha gradualmente inurbato questi contadini trasformandoli in operai. Lo sviluppo dell’azienda capitalistica ha distrutto l’azienda artigiana, che un tempo formava il substrato della vita cittadina, ha gettato le classi medie nella miseria e nella disperazione, ma le ha poi progressivamente riassorbite attraverso la formazione dei nuovi ceti (impiegati, tecnici, funzionari, giornalisti, amministratori, politici, ecc.), cui ha affidato compiti di maggiore rilievo.

In Italia invece, proprio a cagione di questi squilibri di sviluppo, ciò non si è verificato. Le speranze che il Risorgimento aveva riposto nell’unità e nella libertà si rivelarono illusioni. La nuova struttura fondata sul capitalismo e sul liberalismo penetrava lentamente nel vecchio tessuto sociale, quanto era sufficiente per disgregare i vecchi rapporti e rompere il vecchio equilibrio, ma non aveva forza bastevole a sostituirvi un equilibrio nuovo. Penetrava abbastanza per ridurre all’estrema miseria i contadini, perché la concorrenza capitalistica distruggeva l’industria tessile a domicilio diffusa nelle campagne e il piccolo artigianato rurale; perché la liquidazione degli usi civici e la vendita dei beni comunali privava i contadini di risorse che erano essenziali al loro sostentamento, senza che essi potessero giungere alla proprietà libera sia del suolo che del capitale d’esercizio; perché infine con la vecchia struttura precapitalistica tramontava anche la vecchia organizzazione assistenziale che leniva le miserie più gravi. Di fronte a questo immiserimento crescente del ceto contadino, le prospettive dello sviluppo industriale e della proletarizzazione urbana erano assai più lente. Basti pensare che in Italia dal 1871 al 1936 i dati dei censimenti oscillano attorno a poco più di otto milioni e mezzo di addetti all’agricoltura, vale a dire che in così lungo periodo il numero assoluto è rimasto piuttosto statico, anche se ciò ha rappresentato una lieve diminuzione percentuale, tenuto conto dell’aumento generale della popolazione, e precisamente dal 58 al 47% circa di tutta la popolazione attiva. Intorno allo stesso periodo (1936) la percentuale di addetti all’agricoltura rispetto alla popolazione attiva era scesa in Germania a circa il 27%, negli Stati Uniti a circa il 20% e in Gran Bretagna a meno del 6%.

Si venivano così fissando e aggravando progressivamente i termini del problema contadino in Italia: un’agricoltura in cui difettano investimenti di capitali e su cui grava invece una mano d’opera esuberante rispetto alle possibilità economiche, un’agricoltura perciò assolutamente incapace di soddisfare contemporaneamente le esigenze della rendita, del profitto imprenditoriale e del salario ad una mano d’opera troppo numerosa, con la conseguenza di una miseria generale sia del piccolo coltivatore che del salariato e del bracciante, di una forte disoccupazione e sottooccupazione e di una lotta di classe particolarmente acuta. Da ciò una permanente tensione sociale nelle campagne, che giungeva a tratti a forme addirittura esasperate.

Un fenomeno analogo si verifica per il ceto medio. Anche qui eccesso numerico, rispetto alle possibilità di integrazione nel processo produttivo. Poiché lo sviluppo industriale è lento e insufficiente, i figli degli artigiani rovinati, gli appartenenti ai ceti precapitalistici distrutti che non sono riassorbiti nella nuova struttura, così come i figli dei piccoli proprietari o dei bottegai che aspirano alla promozione sociale che la società liberale ha promesso a tutti i volenterosi, premono necessariamente in direzione della carriera burocratica o delle libere professioni. Ma la burocrazia e, più ancora, le libere professioni, offrono solo una vita magra, talora stentata e difficile, e comunque non sono in grado di assorbire le nuove leve di laureati, di diplomati e di intellettuali in genere, molti dei quali formano una riserva di spostati, di disoccupati, o di occupati mal pagati. L’insicurezza economica si traduce in inquietudine spirituale e in instabilità politica, elemento di perenne turbamento nella vita italiana. Il “volontarismo”, il “sovversivismo”, il sindacalismo rivoluzionario, il nazionalismo e poi l’interventismo hanno tratto largamente motivi “ispiratori e quadri da questa riserva, a cui viceversa era difficile chiedere di assolvere alla funzione unificatrice e stabilizzatrice che è propria dei ceti medi in una democrazia borghese, funzione che si esplica attraverso l’elaborazione di una piattaforma comune di valori intellettuali e morali suscettibili di essere universalmente accettata, di formare il linguaggio comune della democrazia. Compito impossibile in Italia sia per l’instabilità stessa del ceto medio, sia per l’enorme diversità di ambienti sociali e livelli culturali in cui si frantumava la vita del paese.

Altri furono pertanto gli stimoli e le influenze cui fu sensibile il ceto medio. Il contrasto fra la situazione presente e la storia passata, i confronti fra le condizioni d’Italia e quelle di altri paesi, i complessi d’inferiorità che ne derivano e che erano aggravati dal ricordo, delle sconfitte del 1866 (Custoza e Lissa), la contemporaneità di condizioni sociali appartenenti a epoche storiche diverse, per cui una mentalità e una cultura impregnata di umanismo classicheggiante dominavano uffici e ministeri da cui dipendeva lo sviluppo della nuova civiltà industriale, la sproporzione fra le aspirazioni di grandezza da un lato e dall’altro l’insufficienza dei mezzi e la scarsa preparazione tecnica: tutto ciò congiunto con la precarietà delle condizioni economiche del paese e del ceto medio in particolare e con una confusa aspirazione a un mutamento, diede vita alla retorica, alla faciloneria, alla leggerezza e all’improvvisazione, come pure al velleitarismo e allo scetticismo che avevano d’altra parte radice già nella tradizione italiana.

Tre fondamentali stati d’animo si possono ravvisare in questi anni, come espressione di questa situazione, nessuno dei quali giovevole ad un ordinato sviluppo democratico: uno scetticismo fondamentale verso la politica, i partiti e i governi, un’assenza di idealità e una tendenza a ricercare ciascuno per proprio conto il modo di “arrangiarsi”, stato, d’animo che oggi si chiamerebbe qualunquista; in senso opposto un moralismo velleitario, non legato alla vita reale del paese e all’azione delle masse, ricusante come riprovevole compromesso ogni concreta possibilità politica; infine una retorica di grandezza che si esprimeva talora in un rivoluzionarismo massimalistico astratto e verboso, più spesso invece in sogni di romanità o in ambizioni imperiali assolutamente sproporzionate alle reali possibilità del paese, e trasferiva così sul piano internazionale quelle aspirazioni ad un elevamento della propria situazione che non riusciva a perseguire realisticamente sul terreno della politica economica e della politica interna.

Unità politico-amministrativa senza reale unità economica e senza espansione del mercato interno: rovina dei contadini senza possibilità di inurbamento; perenne inquietudine dei ceti medi non sono che alcuni fra i contrasti creati da questa situazione di permanente squilibrio fra le illusioni e la realtà.

* * *

Ma lo sviluppo di questa situazione era destinato a suscitarne altri, non meno gravi. Cadute appunto le illusioni, la classe dirigente italiana subisce la suggestione di altre influenze, la tentazione di altre esperienze. Ai sogni dell’idealismo subentra il realismo politico, di cui tengon cattedra in Europa Bismarck e Disraeli. Se la unità, l’indipendenza dello straniero e il regime liberale non han fatto il miracolo di risolvere i nostri problemi, la classe dirigente italiana comincia a pensare di poter essa pure adottare i metodi della Realpolitik di cui fan prova con successo paesi ben più robusti. Sicché, nonostante che la nazione italiana sia così povera da non poter consentire neppure un’esistenza miserabile a tutti i suoi figli, nonostante che i più elementari problemi della vita e del lavoro delle moltitudini non siano, non dico risolti, ma neppure avviati a soluzione, nonostante che il capitalismo italiano, almeno nella sua forma industriale, sia ancora si può dire, ai suoi primi passi, sorgono già nuove velleità di prestigio e di potenza: nazionalismo, militarismo, imperialismo si sviluppano non certo sulla base di un capitalismo agguerrito e bisognoso di espandersi, ma, al contrario, come escrescenze mostruose di un capitalismo rachitico.

“Spingere il nazionalismo al più alto grado di austerità, in tutto e verso tutti: ecco il nostro bisogno indeclinabile dopo di aver per tanti anni subìto una politica di preponderanza straniera; non altrimenti si riacquisterà la coscienza intiera della nostra personalità nazionale, non altrimenti dimostreremo al mondo che l’Italia è e deve e vuole essere degli italiani”, scriveva Crispi su La Riforma fin dal 23 ottobre 1870. E pochi mesi dopo lo stesso giornale, facendo il bilancio politico del 1870, traeva dalla frase del conte di Beust “je ne vois plus d’Europe” motivo di rallegramento, ché i tramonto della vecchia Europa lasciava la via aperta alle “potenze che hanno un avvenire”, in cui “un moto di emancipazione, per così dire, personale… tende a dare il massimo sviluppo alla iniziativa delle politiche nazionali”. La Triplice Alleanza consacrerà qualche anno dopo l’avvicinamento dell’Italia ufficiale alla politica di potenza di Bismarck.

Ma questa politica non significava soltanto un determinato orientamento spirituale: significava anzitutto un incremento delle spese militari. Basti pensare che nel periodo 1861-1940 le spese militari assommarono al 47,25% della spesa statale, mentre gli interessi dei debiti (in gran parte anch’essi contratti per ragioni militari) assorbirono il 20,28%, e tutte le altre spese raggiunsero soltanto il 32,47%! (Queste percentuali sono calcolate previa riduzione di tutte le spese a una misura uniforme espressa in lire oro). Già allora un intelligente conservatore italiano, lo Jacini, poneva l’accento sulle conseguenze di questa politica:

“La smania del grandeggiare intempestivamente, egli scriveva, fu quella che, di conseguenza in conseguenza, ci condusse a doverci alleare alle potenze centrali. Quella alleanza nei termini in cui è contratta ci impone grandi armamenti sproporzionati alla nostra potenzialità economica; i grandi armamenti richiedono grandi spese; alle grandi spese non si può far fronte se non con grandi imposte; le grandi imposte, volute per fare onore agli impegni finanziari, schiacciano le forze produttive, le agricole specialmente che tengono il primo posto fra le forze produttive nazionali; la pubblica economia così prostrata crea la miseria nelle classi lavoratrici; né c’è forza di legge che valga a porgere rimedio se l’organismo del paese è diventato anemico. Questo concatenamento è inevitabile. Si può dire pertanto che l’origine del male finanziario, economico, sociale, che affligge il paese, risiede nell’indirizzo della politica estera”.

A distanza di anni, un analogo giudizio veniva formulato dal prof. Coppola d’Anna: “Nei periodi in cui le pubbliche finanze accusavano disavanzi paurosi, non solo si è fatto appello, come era inevitabile, al contribuente, aumentando il carico delle imposte, ma non potendo effettuare apprezzabili economie sui gruppi di spese più imponenti – servizio dei debito pubblico e spese militari – si è finito col lesinare assai più di quanto si dovesse sulle uniche spese comprimibili: quelle che avrebbero potuto giovare allo sviluppo economico del paese. Ma non appena, a prezzo di enormi sforzi ed indicibili sacrifizi, le finanze accennavano a sistemarsi, un ottimismo inconsiderato prendeva il sopravvento, sovraccaricando i bilanci di oneri che dovevano poi dimostrarsi insostenibili”.

Fu in applicazione di questo indirizzo che nell’ultimo quindicennio del secolo scorso che vide lo scatenarsi della gara imperialistica fra le maggiori potenze (appartengono a quel periodo l’inizio delle conquiste coloniali germaniche, la tensione anglo-francese per la espansione coloniale in Africa e l’inizio della guerra anglo-boera, l’aggressione giapponese alla Cina e il trionfo delle tendenze imperialistiche negli Stati Uniti culminate nella guerra contro la Spagna) anche l’Italia volle tentare la sua avventura africana, finita poi nel disastro di Adua. Non fu tuttavia quel disastro un’esperienza salutare, ché anzi il nazionalismo e il militarismo continuarono a sviluppare e all’ombra di essi prese corpo il più moderno fenomeno dell’imperialismo come espressione della politica del grande capitale. Ultima, almeno sinora, in ordine cronologico fra le manifestazioni di questo accavallamento di situazioni storiche fu appunto l’enorme sviluppo in Italia della concentrazione capitalistica e dei grande monopolio, cioè delle fasi più avanzate e in parte già degenerativo dello sviluppo capitalistico, in un paese che, sotto molti altri aspetti, è viceversa ancora legato a fasi precapitalistiche. E non è chi non veda come precisamente questa situazione, formando ostacolo ad uno sviluppo economico equilibrato abbia di riflesso ostacolato uno sviluppo democratico.

Ma anche sotto un altro aspetto le delusioni succedute all’unità hanno contribuito ad un nuovo orientamento delle nostre classi dirigenti. Il Risorgimento era stato dominato da motivi libero-scambistici: la soppressione dei piccoli stati e dei mercati chiusi avrebbe dovuto generare automaticamente una fase di prosperità. Cadute rapidamente queste illusioni, al momento degli ideali succedeva il momento degli interessi. E gli interessi si indirizzarono subito in forma concreta ad invocare protezioni statali. Preoccupazione indubbiamente legittima quella di sostenere delle industrie minacciate dalla concorrenza di capitalismi più forti, ma che si trasformò rapidamente nella caccia al favore singolo e nella tutela di interessi sezionali. Il protezionismo diventò un comodo riparo per industrie parassitarie, o, più generalmente una garanzia contro i rischi, una remora alle iniziative. Lo stato diventava per questa via soltanto uno strumento per procacciare profitti tranquilli, e, dove la protezione doganale non bastasse o non fosse necessaria, vi si aggiungevano, per lo stesso scopo, le sovvenzioni o gli appalti. La massa enorme dei lavori pubblici ha spesso soltanto lo scopo di favorire determinati industriali o finanzieri, e sempre più il capitalismo italiano tende a gravitare attorno allo Stato, ai suoi favori e alle sue forniture. Nel suo saggio sulla storia della borghesia italiana, scrive il Quilici: “Il ‘borghese’ americano, inglese, tedesco, non si adagiava come l’italiano in una difesa pura e semplice del bene raggiunto, che era, come abbiam visto, mediocrissimo, come le forme tradizionali dell’economia italiana da cui non si discostava. Essi anelavano verso più potenti domini. Coltivare e difendere la proprietà nel ‘bagnomaria’ dei protezionismi statali, questo non poteva essere un ideale”.

Lo Stato italiano in tal guisa veniva assumendo a poco a poco la figura di un sindacato di privilegiati, ciascuno preoccupato di tagliarsi la propria fetta di favori, di concessioni e di privilegi: precisamente l’opposto di quello che dev’essere uno Stato democratico.

Vedremo in un prossimo articolo gli aspetti politici di questa situazione.

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