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Brevi cenni sull’universo neoliberale

22 Gennaio 2019

Quando un anziano piange ci rende particolarmente tristi. È più forte di noi. Mentre il pianto del bambino irrita (se stiamo mangiando al ristorante) o rallegra (se sta dando noia a qualcuno che ci sta antipatico), l’anziano in crisi suscita la più profonda empatia. Questa regola è stata infranta l’altro giorno. Davanti alle lacrime del coccodrillo Claude Juncker, che piagnucolava circa il fatto che l’Europa non è stata solidale con la Grecia, non ho provato altro che un senso di nausea e quieta disperazione: ma davvero crede che ce la beviamo? 

Che cos’è successo, poi, dopo il pubblico pentimento? Niente. Tutto è continuato come se nulla fosse. A parte qualche articoletto rosa dei coraggiosi giornalisti italioti, che hanno telefonato ai soliti quattro o cinque personaggi arci-noti e iper-presenti della ribalta nazionale per sapere che pensassero, loro, dell’autodafé presidenziale. E, allora, ecco Alessandro Baricco salire sul palco e sostenere che, un tempo, la gente prendeva sul serio le lezioni degli insegnanti, le diagnosi e le terapie del medico, le ricette degli economisti: ah, i bei tempi di quando il popolo era crasso e credulo! E, poi, Ernesto Galli della Loggia prendersela con le classi dirigenti ormai incapaci di guidare e/o comprendere e/o rappresentare alcunché – men che meno «gli strati profondi delle società occidentali». E, dulcis in fundo, Enrico Letta, già economista della scuola di Andreatta e Prodi – i responsabili delle riforme che hanno spalancato le porte del debito pubblico italiano alla speculazione internazionale (con l’eccellente risultato di raddoppiarne il rapporto con il Pil nel giro di un gruzzolo d’anni) e aperto la strada alla deregulation bancaria –, già sotto-segretario alla presidenza del Consiglio (governo Prodi), già dirigente dell’Aspen Institute Italia, già frequentatore del gruppo Bilderberg, già membro della Trilateral Commission, accusare le élite politiche di due vizi capitali: volontà all’autoconservazione e machiavellismo. Un’accusa singolare, questa: è come lamentarsi con un nazista perché incapace di provare empatia nei confronti dell’ebreo cui egli stesso ha inflitto terribili e inumane sofferenze. 

Sta parlando seriamente? Ebbene sì. Letta non sta scherzando. Non scherzava nemmeno nel 1997, quando pubblicava un libro, con intento non satirico, intitolato Euro sì. Morire per Maastricht (ed. Laterza). Se ne volete una conferma, vi è sufficiente digitare in Google il titolo del libro. Non vi dovrete stropicciare troppo gli occhi, avrete capito bene: Letta vi starà dicendo che gli Italiani devono sacrificarsi, fino a morire per l’Euro, come, a suo tempo (nel 1939), fu fatto per la Polonia! Il supremo sacrificio, nel 1997, veniva indicato come necessario per ragioni patriottiche: l’Italia avrebbe avuto tanto da guadagnare dalla costruzione della moneta unica! Sei anni dopo la pubblicazione, Enrico Letta, nelle vesti di Presidente del Consiglio (28 aprile 2013-22 febbraio 2014), avrebbe girovagato per le cancellerie europee, elemosinando impossibili margini di manovra all’interno del duro regime d’austerità a moneta unica promosso dalle banche tedesche. 

È davvero così difficile capire che il matrimonio tra Ue e poteri forti porta miseria, svuotamento delle sovranità nazionali e della democrazia? E, annesso a tutto ciò, al declino fatale e inarrestabile della politica? Se non riuscite a capacitarvi del perché sembri importarcene poco, e di quanto strana e contraddittoria risulti la relazione tra la biografia politica di un campione del neo-liberalismo come Letta e le sue esternazioni come libero cittadino nonché rettore della Scuola di affari internazionali e professore alla facoltà di Sciences Politique della Sorbona, è perché non avete fede nell’imperscrutabile νόος cosmico che configura l’ordine “spontaneo” del mercato e governa le nostre condotte individuali, sociali e politiche. È solo in questo cosmos che le altrimenti incomprensibili biografie dei governanti trovano una convincente chiusura razionale.

Storicamente il capitalismo tende a presentarsi come forma ultima di ordine naturale e sociale, assumendo un aspetto di religione puramente cultuale, «la più estrema forse che mai si sia data» (Walter Benjamin, Capitalismo come religione). Il neo-liberalismo ne costituisce l’estremizzazione, una forma di potere governamentale e bio-politico che cancella l’ambito della decisione dalla sfera del politico e impone il pensiero unico, l’impossibilità di trovare alternative al governo del mercato (Margaret Thatcher docet). Non c’è spazio di manovra politica se non attraverso tentativi di azioni di rottura dal basso, come stanno dimostrando i Gilets Jaunes in queste settimane, e in generale le rivendicazioni di sovranità popolare e democratica delle masse che si sono manifestate in questi anni inter alia con gli Indignados in Spagna o il movimento Cinque Stelle in Italia. 

Dato un quadro politico continentale dei movimenti popolari piuttosto sconfortante (il declino di Podemos in Spagna, l’avvio di un processo di istituzionalizzazione dei Cinque Stelle in Italia, l’ascesa di forze che si ispirano al nuovo fascismo, ecc.), risulta sempre più difficile non cedere alle sirene rassicuranti del discorso del potere, che rovescia sugli organizzatori del consenso degli ultimi e penultimi l’accusa di populismo, quando la realtà è la semplice verità laclausiana che ogni costruzione politica è una costruzione discorsiva e populistica. Con un corollario: la ricetta populista doc non è prevedibile né predeterminabile quanto agli effetti politici. Ed è poi questo elemento di scarsa predicibilità a rendere il populismo autentico il vero spauracchio delle élite, da cui la malevola equazione populismo=sovranismo=neo-fascismo. Il popolo va impaurito, va paralizzato, va reso incapace di costruire un populismo non controllabile. E che cos’è, tale equazione, se non una delle sequenze cruciali delle catene equivalenziali con cui viene costruita la totalità discorsiva neo-liberale? Cioè, siamo o no di fronte a un populismo dall’alto? Certo che sì. 

Ma cosa si intende con “populismo dall’alto”? Una parodia del populismo laclausiano, per intenderci, in quanto basata su una costruzione del discorso politico che si fonda sulla neutralizzazione del campo politico, cioè su una declinazione irenica dell’antagonismo e della conflittualità che sono il sale delle moderne democrazie, così da determinare quella particolare condizione di disciplinamento dello spazio sociale e politico in grado di declinare i momenti rivoluzionari in momenti di restaurazione dell’ordine. Per dirla in termini gramsciani, il populismo dall’alto produce «rivoluzioni passive», momenti di risignificazione del campo politico in cui la tesi, in questo caso la ricetta neo-liberalista, sviluppa tutte le sue possibilità di lotta egemonica fino al punto di incorporare una parte dell’antitesi (la ricetta social-democratica). L’opposizione amico-nemico, che caratterizzava l’agone politico moderno, diventa, così, una coincidentia oppositorum, una partnership concorrenziale, una lotta priva di polemos tra significanti che si legittimano vicendevolmente e alternativamente all’interno dello stesso frame egemonico. Non c’è più un fuori e un oltre: è il populismo senza frontiere antagonistiche, divisioni sociali e, quindi, politica. È il populismo che non attiva il popolo e che alla fine non corrisponde alle domande democratiche dei gruppi sociali che lo compongono. Il populismo dall’alto è, insomma, la negazione della politica, è la risignificazione del campo politico come mercato, luogo di scambio, di mediazione, di compromesso, di stasi, di “pace”. È ciò che è avvenuto nel trentennio neo-liberale: la neutralizzazione del conflitto e quindi della politica, leggi democrazia.

Il populismo “dal basso” (o democratico), invece, è quello caratteristico delle forze politiche che sanno istituire una frontiera antagonistica tra popolo ed élite e sanno perciò individuare nell’oligarchia un hostis publicus, opponendovi un fronte sociale unificato in una prospettiva temporale di durata e fedeltà all’evento di rottura e in funzione di un programma politico di trasformazione radicale dell’ordine sociale in senso redistributivo. 

Il M5S è nato su queste basi. Ora, al governo con forze sistemiche come la Lega, è chiamato a operare in una logica istituzionale che rischia di comprometterne la fisionomia delle origini. E certo, se va dato atto, tanto ai pentastellati quanto ai leghisti, che il loro populismo è partito davvero da un “registro  basso” – l’appello al popolo è stato rude, volgare, schietto, senza mezzi termini, al limite dell’insopportabile (dal VaffaDay di Grillo alla comunicazione salviniana) – mi rifiuto di credere che il popolo italiano sia un’entità così semplice e ordinata da essere identificabile agli slogan più o meno razzisti, xenofobi o idioti dell’uno o dell’altro esponente. Nota di teoria politica: non andrebbe mai dimenticato che lo stesso termine “popolo” è, per sua natura, ampiamente polisemico, e che la volatilità dei consensi è talmente elevata da mettere in forte discussione la solidità dell’identificazione sic et simpliciter tra “discorso” del leader e sentimento della base. 

Ampio è il vuoto tra élite e popolo, dunque, soprattutto nel nostro Paese. E questo per una semplice ma fondamentale ragione: la sedicente “sinistra” ha disertato il discorso della trasformazione sociale. Il punto è che, se escludiamo dall’analisi i partitini e i gruppetti politici che dimostrano una capacità egemonica inversamente proporzionale all’intensità del loro irriducibile attaccamento alla bandiera della testimonianza, il Pd e i suoi satelliti hanno abbandonato da lungo tempo un terreno che ha costituito un formidabile collante ideologico di Pci e Psi nel Secondo Dopoguerra, ovvero quel significante chiamato “anticapitalismo”, che non era tanto la lotta al “discorso del padrone” quanto la capacità di leggere criticamente l’apparato ideologico del presente, la realtà del capitale come forza non solo economico-materiale ma anche simbolica, come potere ontologico del sociale. La mancanza di un’analisi dei dispositivi del potere odierno – che di necessità deve assumere una prospettiva analitica multipla – non potendosi limitare né alla geopolitica né all’economia ma comprendendo anche la dimensione politico-simbolica – è la ragione per cui Pd e satelliti sono finiti – e finiranno – per non avere gli strumenti discorsivi necessari a trascendere il regime discorsivo dell’egemonia neo-liberale, a rendere possibile l’impossibile. Il problema, evidentemente, è che il there is no alternative è diventato parte anche del loro immaginario, che si risolve in puro folkore.

Di fronte a questo desolante e statico quadro, gli unici momenti in cui ancora si sogna è quando qualcuno fa un po’ di casino, come succede in queste settimane in Francia con i Gilets Jaunes, che stanno facendo affossare i consensi, fino a poco tempo fa entusiastici, verso la presidenza del populista neo-liberal Macron. La cosa non sorprende minimamente. Si sapeva dell’estrema volatilità dei leader neo-liberali. Il parallelo italiano di Macron è Matteo Renzi, l’indemoniato della chiacchiera vuota, del flatus vocis, con i suoi modi sbrigativi da venditore di pentole in corriera, talmente convinto di rappresentare il “nuovo” da desiderare di far tabula rasa del suo stesso partito. Assurto agli onori della cronaca come Grande Rottamatore del Pd, il Torquemada dei democratici italiani si è rapidamente consunto come neve al sole. Quando si dice gioventù bruciata. Ma chiediamoci perché è finita la grande rivoluzione culturale che si proponeva?  E perché Macron rischia di fare la stessa fine?

Il discorso che accompagna al potere il populista neo-liberale appoggia sistematicamente sull’immagine del liberatore che risveglia le intime potenze racchiuse nel popolo. La natura dell’eroe della rivoluzione neoliberale è quella del demiurgo, che promette di plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza: farà svanire gli impedimenti e i lacciuoli che impediscono la crescita indefinita del mercato, favorirà il riconoscimento sociale dei meritevoli, perseguirà il bene comune, l’efficienza dei processi, la trasparenza, ecc. 

Il 24 aprile 2017, quindi due settimane prima del secondo turno delle presidenziali (7 maggio 2017), Emmanuel Macron faceva uscire il suo memoir intitolato Rivoluzione. Il sito di Amazon lo presentava così: «Una sfida aperta ai populisti e a coloro che non credono più nelle istituzioni, senza false promesse, che potrebbe cambiare per sempre il modo di fare politica in Europa. “Alcuni pensano che il nostro Paese sia in declino, che il peggio debba ancora arrivare, che la nostra civiltà sia in via di estinzione. Che il nostro unico orizzonte consista nell’arretramento o nella guerra civile. Che per proteggerci dalle grandi trasformazioni mondiali dovremmo tornare indietro nel tempo e applicare le ricette del secolo scorso. Altri pensano che la Francia possa continuare più o meno così, scendendo sì la china, ma una china non troppo ripida. Che il gioco dell’alternanza politica basterà a darci un po’ di respiro. Dopo la sinistra, la destra. Le stesse facce e gli stessi uomini, oramai da tanti anni. Io sono convinto che abbiano torto, sia gli uni sia gli altri”». Notare le espressioni: “false promesse”, “cambiare per sempre il modo di fare politica”, “arretramento” e “guerra civile”, “le stesse facce, gli stessi uomini”. La risposta del popolo francese alle ricette di Macron è stata quella dei Gilet Gialli. 

E in Italia? Da noi, intrappolati nella rete delle necessità della crisi economica, come possiamo far ripartire un discorso democratico dal basso? Resuscitando il Pd, è ovvio! Invece di porsi la questione dell’effettivo esercizio di sovranità popolare e democratica, i giornali vicini al centrosinistra si esaltano per la creazione, da parte dell’ex ministro allo sviluppo economico, Carlo Calenda, di una lista unitaria anti-sovranista per le Europee, comprendente, oltre al moribondo Pd, i partiti di sinistra e le forze civiche europeiste: questa lista salverà il Pd! È naturalmente una grande notizia. 

Per confezionare al meglio questo nuovo prodotto elettorale neo-liberalista, la linea strategica del marketing team di Calenda ha esteso l’invito, oltre che all’immarcescibile filoeuropeista Bonino, anche alla new entry del centrosinistra nazionale, Federico Pizzarotti, non più solo sindaco di Parma ma ora anche presidente nazionale della nuova creatura politica, Italia in Comune, che lui stesso ha fondato con l’intento di superare il Pd (definito da Pizzarotti stesso un “partito di carta”) e creare una nuova classe dirigente nazionale (consultate il loro sito, please). Anche Pizzarotti, dunque, homo novus. 

Analizzare il fenomeno dalla città di Pizzarotti può portare qualche elemento di riflessione a chi, non vivendola, non ne ha un’immagine esaustiva. Fa riflettere come «la Repubblica» lanci la volata a Pizzarotti, infischiandosene dell’accertamento della verità dei fatti. Michele Smargiassi, per esempio, su «la Repubblica» del 16 dicembre scorso, affermava, senza vergogna, che Pizzarotti ha ottenuto una seconda trionfale investitura a primo cittadino. Il giornalista evidentemente ignorava – o fingeva di non sapere, il dubbio è lecito – che, al primo turno, Pizzarotti aveva ottenuto 26.496 voti contro i 24.934 di Paolo Scarpa (una differenza dunque di 1.562 voti) e che, al secondo turno, aveva partecipato al voto solo il 45,17% degli aventi diritto (in calo rispetto al 53,65% del primo turno). Un trionfo, se c’era stato, era stato del partito degli astensionisti. Per non dire, poi, che non poche preferenze del secondo turno erano arrivate da quell’elettorato di “destra” le cui rappresentanze politiche sono oggi tenute non tanto cortesemente a distanza dal primo cittadino (il M5S «ha fallito», la Lega è «un partito di estrema destra», ecc.).  

Ma Smargiassi è ambizioso e si spinge oltre: afferma che Pizzarotti avrebbe scavalcato agevolmente anche l’«abisso delle inchieste per corruzione»: altro errore significativo. Intanto, i procedimenti sono ancora in corso, e sono sei le inchieste giudiziarie in ballo, tre a carico del sindaco. Anche a Parma, dove regna la «rivoluzione gentile» di Pizzarotti, dunque, il sindaco governa senza un consenso popolare solido, dimostrando che il patto di rappresentanza tra governanti e governati è ormai in grande crisi. Come mai? Forse perché il popolo è stanco di non vedere soddisfatti i propri bisogni fondamentali? Sempre più parmigiani si chiedono perché anche il sindaco gentile non attacchi la struttura dei poteri forti (banche, multinazionali) che, anche a Parma, hanno continuato a prosperare, nonostante la crisi del debito? 

Non è questo il luogo per ripercorrere le scelte di Pizzarotti nel governo locale, il fatto di non essere riuscito a bloccare la costruzione dell’inceneritore e di avere le mani legate rispetto al colosso Iren. Ma se una critica politica gli va rivolta, essa va fatta a partire proprio dal non aver saputo rispondere a quei bisogni democratici fondamentali – rispetto al nodo del debito e della individuazione dei responsabili – per cui era stato scelto da una parte del popolo di Parma. 

Di sicuro c’è che l’aria di questa città è irrespirabile, e che vengono portati avanti progetti per la realizzazione di imponenti infrastrutture (mega centri commerciali) che impoveriranno il centro storico e aumenteranno il traffico veicolare, che si alienano pezzi del patrimonio pubblico per sanare il debito, che sono stati approvati debiti fuori bilancio delle precedenti amministrazioni e che si sono innalzate tasse, tariffe e rette ai massimi livelli, che non si sono attivate azioni di responsabilità e risarcitorie nei confronti dei dirigenti responsabili del debito, che si sono privatizzati molti servizi comunali. Mentre è lecito chiedersi se è proprio questo il “nuovo” che vogliamo, Legambiente denuncia una lunga serie di criticità e di situazioni poco chiare nel progetto di ampliamento dell’aeroporto di Parma – un progetto costoso e probabilmente inutile, destinato a far arrivare aerei cargo in una città già molto inquinata e complessa sul piano della viabilità – Pizzarotti dichiara che si alleerà con i Verdi per un’Europa solidale, unita e vicina all’ambiente. 

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