Cultura | Politica

Contro il “Super MEF”. Come imparai ad amare i tecnici e a svuotare la democrazia

16 Maggio 2018

Sono giorni di concitate trattative tra le forze politiche che comporranno la maggioranza del nuovo governo. Da settimane circolano le più mirabolanti e divertenti speculazioni sulle nomine ministeriali. Chi finirà al Viminale? Quale sarà il nome del nuovo Guardasigilli? Chi dirigerà la diplomazia estera? Ma soprattutto: chi siederà sulla scrivania di Palazzo Chigi a presiedere il nuovo esecutivo? Nel mentre queste parole vengono appuntate, le incertezze permangono ed il confronto tra Lega e Movimento 5 Stelle prosegue. La questione che invece appare meno scottante, nonostante sia decisamente cruciale, riguarda la nomina del futuro Ministro dell’Economia e delle Finanze. 

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) è indiscutibilmente il dicastero più rilevante della Repubblica italiana. Insieme al Ministero per lo Sviluppo economico (MISE), condivide la responsabilità di governare l’economia italiana, nonostante l’attribuzione di competenze sia fortemente sbilanciata a favore del primo. L’attuale MEF nasce nel 2001, sulla base della riforma “Bassanini-Prodi”, che prevedeva l’unificazione del Ministero delle Finanze con quello del Tesoro e del Bilancio. Già nel 1996, quest’ultimo fu istituito a partire dall’accorpamento tra i precedenti Ministero del Tesoro e Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, quest’ultimo un retaggio della stagione della programmazione degli anni ’60 che il governo Ciampi (il primo “tecnico” della storia repubblicana) volle abolire nel 1993. Lo stesso Carlo Azeglio Ciampi guiderà quel primo “Super-ministero”, nel contesto del Governo Prodi I (1996-1998) e della prima parte del Governo D’Alema (1998-2000), giocando un ruolo non indifferente nella forsennata rincorsa dell’Italia all’ingresso nella moneta unica europea. Dalle cronache del tempo risulta come, anche di fronte ad un’autorità come Romano Prodi, la politica economica del governo del centrosinistra, in poche parole gli eccezionali avanzi primari superiori al 4% e le privatizzazioni selvagge dei gioielli delle partecipazioni statali (es. Telecom Italia nel 1997), fosse saldamente gestita dell’ex Governatore della Banca d’Italia, allora al timone dell’altra centrale operativa dell’economia italiana. Va ricordato infine che sempre nel 1993, a seguito di un referendum abrogativo, fu soppresso il Ministero delle Partecipazioni Statali, istituito nel 1956 per supervisionare gli enti pubblici economici (Iri ed Eni), dopo che già nel 1992 le sue funzioni erano state ampiamente svuotate e trasferite al Tesoro, assieme al controllo azionario di Iri, Eni ed altri enti pubblici, divenuti Società per Azioni in via di privatizzazione. A completare il quadro precedente alle riforme della Seconda Repubblica, vi era il Ministero dell’Industria e Commercio, oggi mutato nel MISE, con competenze relative al settore dell’industria privata. 

La frammentazione delle istituzioni preposte all’attuazione della politica economica implicava la necessità di operare un certo coordinamento tra i vari ministeri economici, da effettuarsi attraverso preposti Comitati interministeriali, organizzati su base tematica. Il più importante di essi fu il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE), istituito nel 1967 con la medesima legge che aggiunse la dicitura “programmazione economica” al precedente Ministero del Bilancio. Il CIPE è tutt’oggi esistente, sebbene le sue funzioni siano state fortemente ridimensionate, al punto da trasformarlo in una semplice arena consultiva. Il suo compito dovrebbe essere quello di stabilire gli indirizzi di politica economica del Paese, definendo le azioni da intraprendere e verificandone l’attuazione. Ovviamente, quasi nulla di tutto ciò avviene in sede di CIPE, sebbene vi partecipi mezzo consiglio dei Ministri, compreso il Premier che lo presiede. Del resto, chi conosce oggi il CIPE? Oscar Wilde suggeriva che l’importanza di qualcosa è direttamente proporzionale alla misura in cui di essa si parla. Certamente, il CICR non gode di maggior notorietà. Si tratta del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio. Esso sì è presieduto dal ministro dell’Economia e delle Finanze, con il compito di vigilare il credito, il risparmio e la valuta. Nei fatti, la vigilanza del credito è competenza condivisa tra la Banca d’Italia e la Banca centrale europea, la valuta è sempre stata nelle mani dell’Istituto di emissione, il risparmio è diventato assai difficile da vigilare e da tutelare in tempi di cronica depressione economica. Eppure un tempo il CICR aveva persino la capacità di influire sull’assetto istituzionale dell’insindacabile ed imponente Banca d’Italia del Governatore Carli: nel 1975 una delibera del comitato impose all’Istituto di Via Nazionale l’acquisto obbligatorio dei titoli di Stato non collocati sul mercato primario, ad un prezzo minimo fissato dal Tesoro. Esistevano altri tre comitati interministeriali economici: il Comitato Interministeriale dei Prezzi (CIP), avente il compito di determinare i prezzi massimi di alcuni beni e servizi essenziali, il Comitato Interministeriale per la Politica Economica Estera (CIPES) ed il rilevantissimo CIPI, il Comitato Interministeriale per la Politica Industriale, che ebbe una certa influenza nella seconda metà degli anni ’70 nel quadro di una rinnovata politica industriale (legge 675/1977). Questi ultimi furono tutti brutalmente soppressi alla vigilia di Natale del 1993.

Con ciò non si vuole certo sovrastimare l’importanza che i Comitati interministeriali avevano rispetto ai singoli ministeri. Il rapporto rimaneva sfavorevole ai primi anche nei periodi di massima influenza. Tuttavia, la loro stessa funzionalità rappresentava una timida manifestazione di alcune tendenze concepite in seno alla politica della programmazione economica: la pianificazione democratica dello sviluppo economico, il coordinamento degli strumenti ed il decentramento della politica economica del Paese. I processi innescati negli anni ’90, che hanno portato alla concentrazione del potere decisionale nelle mani del singolo Super Ministero dell’Economia e delle Finanze, accompagnarono così, non solo simbolicamente, il decorso mortale della programmazione economica. Paradossalmente, nel mentre si accentravano le competenze e le prerogative nelle mani di un ministero unico, il suo ambito di manovra andò progressivamente riducendosi per effetto di mutamenti istituzionali a livello sovranazionale, accompagnati da una sociologicamente curiosa successione dei Ministri incaricati. 

Prima di affrontare questo tema, vediamo oggi come si compone il Super MEF e quali sono i suoi compiti. L’organigramma sembra quello di un’impresa multi divisionale analizzata da Chandler e Williamson, i grandi studiosi della corporation americana. Tuttavia, diversamente dalla tipica forma-M dell’impresa, l’autonomia dei singoli dipartimenti rispetto al “General Office” risulta essere decisamente inferiore. Il potere decisionale è fortemente accentrato nelle mani del Super ministro, mentre i direttori dei dipartimenti sono semplicemente dei funzionari di rango elevato. Il ministro, oltre ad essere il dominus del dicastero, ha uno status da alto diplomatico, segnatamente in funzione di rappresentante per l’Italia alle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin. I dipartimenti del Super MEF sono quattro, in ordine di importanza: il Dipartimento del Tesoro è il cuore del Ministero, si occupa della politica economica e finanziaria, delle partecipazioni statali, del debito pubblico; il Dipartimento delle Finanze è dedito al sistema dei tributi e delle entrate fiscali; la Ragioneria Generale dello Stato vigila sul bilancio dello Stato, contribuendo alla stesura della finanziaria annuale; il Dipartimento dell’Amministrazione Generale, del Personale e dei Servizi ricopre un semplice ruolo amministrativo per conto del Ministero. 

 

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Nel suo complesso, il Super MEF svolge le seguenti funzioni (dal sito del MEF):

Il Ministero nella gestione attiva della politica economica e finanziaria:

  • formula le linee di programmazione economica-finanziaria e coordina gli interventi di finanza pubblica considerati i vincoli di convergenza e di stabilità definiti dalla UE.
  • elabora le previsioni economiche e finanziarie e controlla gli andamenti generali delle spese e delle entrate;
  • predispone i conti finanziari ed economici delle amministrazioni pubbliche, gestisce le fasi del bilancio dello Stato e valuta gli effetti delle politiche e delle normative in materia economico-fiscale;
  • redige i documenti di finanza pubblica;
  • gestisce le partecipazioni azionarie dello Stato.

L’accentramento politico-decisionale nelle mani del Super Ministro comporta che l’intera politica economica del paese sia convogliata nella figura di colui che siede sulla scrivania lignea che fu di Quintino Sella. Questa semplice caratteristica istituzionale implica dunque che la filosofia politica di una singola persona, senza tuttavia sottovalutare l’entourage dei dirigenti ministeriali, finisce per ricoprire un’importanza maggiore di qualunque proposta economica contenuta nei programmi elettorali dei partiti rappresentati nel Parlamento sovrano. La recente genealogia dei Ministri del Tesoro (fino al 2001) e del MEF è piuttosto eloquente in questo senso. Fin dai tempi del primo Ministro del Tesoro dell’Italia repubblicana, l’incarico di dirigere il più importante dicastero economico spettò ad un esponente politico eletto in Parlamento. Nel caso dell’Assemblea Costituente, si trattava di un liberale dall’eccentrico nome, Epicarmo Corbino, tanto vituperato dalle sinistre e particolarmente dal suo collega alle Finanze, il comunista Scoccimarro. La nomina di un politico al ministero del Tesoro fu una pratica proseguita per oltre quarant’anni, con il democristiano Emilio Colombo a dominare la scena tra gli anni ’60 e ’70. Persino il più politico dei politici, ovvero Giulio Andreotti, ricoprì tale incarico nel corso del Governo Fanfani II (1958-1959). Del resto, se si riemerge momentaneamente dall’acqua stagnante del peggior provincialismo italico, non si può fare a meno di notare che la nomina a capo del Tesoro affidata ad una personalità prettamente politica, anche senza alcuna formazione o esperienza in ambito economico, è una normale consuetudine delle moderne democrazie parlamentari. Il Regno Unito la prosegue senza esitazione: tutt’oggi sia il Cancelliere dello Scacchiere che la sua controparte “ombra” dell’opposizione sono dei politici di professione eletti in Parlamento. La politica economica viene essenzialmente indirizzata dalla Camera dei Comuni, o più precisamente dalla maggioranza parlamentare che sostiene il governo. Tornando al caso italiano, occorre ricordare che l’ultimo vero ministro “politico”, prima della cesura del 1992, fu proprio il “tecnico” per eccellenza della Prima Repubblica: Guido Carli, ministro del Tesoro dal 1989 al 1992, ma già alla seconda legislatura al Senato tra le file della Democrazia Cristiana. Piero Barucci diventò quindi il primo “tecnico” a ricoprire l’incarico di ministro del Tesoro nel contesto del governo “semi-tecnico” di Giuliano Amato (1992-1993), quello della svalutazione della lira, del prelievo forzoso sui conti correnti e della trasformazione degli enti pubblici in S.p.A.. Barucci rimase in quel ruolo anche nel Governo Ciampi e cedette il posto a Lamberto Dini, Direttore Generale della Banca d’Italia per quindici anni (1979-1994), con l’avvento del primo Governo Berlusconi. Il vaso di Pandora dei “tecnici economici” era stato aperto: Carlo Azeglio Ciampi (ex Governatore della Banca d’Italia), Domenico Siniscalco (ex Direttore Generale del Tesoro), Tommaso Padoa Schioppa (ex Vicedirettore Generale della Banca d’Italia e Banca Centrale Europea), Mario Monti (ex Commissario europeo), Vittorio Grilli (ex Direttore Generale del Tesoro e Ragioniere Generale dello Stato), Fabrizio Saccomanni (ex Direttore Generale della Banca d’Italia), Pier Carlo Padoan (ex Vicesegretario Generale dell’OCSE). Fanno eccezione Vincenzo Visco (ministro del Governo Amato dal 2000 al 2001) e Giulio Tremonti, entrambi esperti di economia attivi in politica ed eletti in Parlamento nel corso del loro incarico. 

Come ci si può spiegare questa progressiva tecnicizzazione antropologica della figura del principale ministro dell’economia? La motivazione di tale necessità si accompagna alla conclamata de-politicizzazione della politica economica in Italia. Con essa, si sancisce un sostanziale commissariamento delle scelte politiche in ambito economico, imposto da sacrali ed universali leggi economiche custodite da imperscrutabili istituzioni nazionali e sovranazionali. Le alternative si riducono a poche indistinguibili e ininfluenti opzioni. Ma la politica economica è quella che regola lo sviluppo e la distribuzione del reddito di una nazione, il tasso di disoccupazione, l’inflazione, la concessione di prestazioni sociali e previdenziali. La politica economica è la più politica delle politiche, è un’area di massimo conflitto tra interessi contrapposti. L’aver stabilito, come se fosse un cardine della nuova Costituzione materiale del Paese, che essa debba essere affidata ad un “tecnico responsabile”, apprezzato dai “mercati finanziari”, “affidabile nel contesto delle istituzioni dell’Unione europea”, non è altro che la cruda affermazione di un principio fondamentalmente anti-democratico che implica la prevaricazione di un’unica radicale opzione politica: i saldi primari eterni, le privatizzazioni scriteriate, la precarizzazione del lavoro e l’abbattimento delle tutele, la regressività delle imposte, la progressiva riduzione dello Stato sociale. Allo stesso modo, la concentrazione di potere nelle mani del Super MEF e del suo Super ministro risulta meramente funzionale all’eliminazione di qualunque dialettica politica tra i precedenti dicasteri economici e tra quest’ultimi ed il Parlamento della Repubblica. Si veda a tal proposito l’arrogante supponenza con cui il Super ministro Padoan riferì, presso l’organo rappresentativo dei cittadini italiani, le misure relative ai recenti salvataggi bancari. Per non parlare dell’oscura vicenda dei titoli derivati sul debito pubblico contratti con Morgan Stanley, una cifra di 3,1 miliardi di euro che il Tesoro guidato da Vittorio Grilli (allora Super ministro ma Direttore Generale ai tempi della sottoscrizione) dovette celermente versare alla banca d’affari americana nel 2012.

Contro il nefasto Super MEF occorrerebbe meno falso tecnicismo e più democrazia. Il paradosso di questo lungo governo tecnocratico di venticinque anni, in tutta la sua proclamata rispettabilità, si trova nel drammatico fallimento dello stesso assetto economico incarnato dal dicastero di Via Venti Settembre. Se l’Italia è tornata ad essere una periferia industriale sulla via del declino, incapace di garantire un benessere diffuso ai suoi cittadini, la responsabilità è da attribuirsi esclusivamente alle scelte adottate dai Super ministri del MEF, cavalieri della politica empiricamente fallimentare e politicamente anti-democratica incarnata nei trattati Ue. Per questo motivo, la finta tecnocrazia conservatrice che ha dominato il panorama politico in questi ultimi decenni dovrebbe essere bandita da ogni incarico di potere. Al suo posto, il governo della nostra martoriata economia necessiterebbe di un maggiore controllo democratico, con un dibattito pubblico accessibile a tutti i cittadini, scevro di anglofoni tecnicismi e dichiarazioni apodittiche. Bisognerebbe instaurare la logica dei ministri politici responsabili di fronte all’opinione pubblica e alle rappresentanze politiche, parlamentari e sociali. Non si negano certo gli aspetti tecnici della politica economica: quello di cui le strutture economiche italiane avrebbero bisogno è una vera tecnocrazia democratica, imbevuta di un patriottismo progressista che ambisca a rendere l’economia Italiana più dinamica, prospera, giusta e libera per tutti, o quanto meno per i molti che hanno inutilmente sofferto a causa del trentennio tecnocratico.  

C’è solo da augurarsi che questa incombente nomina del Super ministro sia l’ultima di una lunga e tormentata serie. Il potere del Super MEF dovrebbe essere spacchettato e pariteticamente distribuito fra tre diversi ministeri del Tesoro, delle Finanze e della Programmazione Economica. I comitati interministeriali, il CNEL e le commissioni parlamentari dovrebbero acquisire maggiore rilevanza nelle scelte nazionali ed internazionali di politica economica. Infine, se proprio si sente la necessità impellente di un Super ministero, lasciamo che questo sia quello dell’industria, magari ispirato dallo storico esempio del giapponese MITI: un Ministero per l’Innovazione ed il Rinascimento Industriale (il Super MIRI), perché di questo la nostra economia ha disperatamente bisogno, non dell’effimera ed ingannevole “stabilità” del Super MEF, moderno colosso dai piedi di argilla. 

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