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Dopo l’Umbria. Un nuovo linguaggio per unire intellettuali e popolo

5 Novembre 2019

Alessandro Portelli ci ha spiegato le ragioni profonde del trionfo della destra in Umbria, ravvisandole nella solitudine dell’uomo comune di fronte allo sconquasso che la restaurazione neoliberale ha prodotto in equilibri sociali e orizzonti emancipativi di lungo periodo. Tramontata la percezione della possibilità dell’avanzamento collettivo, individui soli cercano a tentoni una via di fuga dallo stato di cose presenti. Il neoliberismo ha davvero creato el hombre nuevo, ha agito nel profondo della mentalità collettiva oltre che nella materialità dei rapporti di potere e di produzione.

Del resto il momento populista in cui tutto l’occidente è immerso deve essere compreso alla luce della metafora del deserto e degli individui erranti nell’esilio, in attesa che si stabilisca un nuovo patto politico, come successe alle tribù di Israele guidate da Mosè fuori dall’Egitto. L’errore sarebbe quello di dare per scontata la direzione dell’esodo. Fuor di metafora, il momento populista è destinato prima o poi a solidificarsi in nuove istituzioni, il cui carattere sarà determinato dalla forza o debolezza dei movimenti sociali e dall’intensità della lotta per l’egemonia culturale. Basti pensare agli esiti diametralmente opposti che si sono avuti nel nostro paese in due momenti cruciali di crollo del patto istituzionale, nel primo e nel secondo dopoguerra: il fascismo in un caso, la Repubblica antifascista nell’altro.

Ci troviamo di fronte ad uno snodo di analoga intensità nella storia unitaria dell’Italia, e le sinistre, in tutte le loro gradazioni, si presentano largamente impreparate, in preda ad una sorta di sindrome dell’assedio permanente, della paura irrazionale per i barbari alle porte. L’uomo nuovo neoliberale ci spaventa perché non lo capiamo, o meglio, perché non ci capisce. Sentendosi di agire in territorio ostile, la sinistra reagisce o attraverso il rinculo ultra-identitario e l’elaborazione di codici e strategie carbonare in attesa che la verità illumini il popolo, o attraverso la subalternità ai progetti e alle visioni altrui, in base alla quale magari “si va al governo” senza però che i ceti subalterni si accorgano delle differenze rispetto a quando “al governo” ci vanno gli altri.

Tra il rafforzamento delle proprie ragioni all’interno di un circolo sempre più ristretto e il totale cedimento alle ragioni altrui ci sarebbe la terza via del convincimento delle grandi maggioranze sociali delle proprie ragioni, cioè la battaglia per l’egemonia. Ma la battaglia per l’egemonia va condotta pensando non all’uomo-come-vorremmo-che-fosse, ma all’uomo reale, costruito dall’egemonia neoliberale come ce lo ha descritto Portelli. Per questo tipo di uomo nuovo i nostri rituali, i nostri simboli, il nostro linguaggio prima ancora che sbagliati risultano incomprensibili. E non è questione di maggiore o minore radicalità. Dal punto di vista della sociologia elettorale non c’è differenza tra le varie gradazioni della sinistra, asserragliate tutte all’interno dei recinti delle ZTL e impercettibili per gli abitanti delle periferie solitarie, in cui imperversa, anche fisicamente, Salvini. Da quando abbiamo iniziato a rinchiuderci nei teatri, abbandonando la pratica corporale del comizio all’aperto? È il mondo al contrario, che non può essere raddrizzato vagheggiando attorno alla “falsa coscienza” dei poveri, che voterebbero in maniera opposta ai propri interessi. Che non si dà vita vera se non nella falsa Franco Fortini lo aveva già chiaro cinquant’anni fa.

Eppure la battaglia per l’egemonia non è impossibile. Che l’Italia sia “un paese di destra” non è scritto in nessun codice genetico, e pensare il contrario sta portando la sinistra all’afasia e all’inazione. Nella fase aperta dalla crisi del 2008 progetti politici nascono, si affermano e muoiono in lassi di tempo sempre più brevi, dal renzismo al macronismo, tutti vittime della stessa illusione, quella di mettere in campo per la crisi ricette che ricalcano quelle che l’hanno prodotta. Il salvinismo si pone su di un altro piano, quello della costruzione di un nuovo orizzonte di senso, e tuttavia prima o poi è destinato a cadere vittima dell’ingovernabilità delle nostre società all’interno del paradigma neoliberale del quale lo stato maggiore della Lega è imbevuto. Un paradigma alternativo, ambientalista, socialista, toccherebbe alla sinistra e ai movimenti sociali elaborarlo e praticarlo. Il deserto neoliberale deve essere ripopolato. Un compito che ha sì a che fare con il varo di politiche di rottura rispetto alla consuetudine neoliberale sul terreno del welfare e del lavoro, ma soprattutto con la costruzione di un nuovo orizzonte di senso collettivo, di gruppi dirigenti rinnovati e credibili e di nuovi codici di comunicazione tra intellettuali e popolo. Se non riusciamo a evitare che il sogno di Bruce Springsteen citato da Portelli si traduca in bugia continueremo ad avere ragione, e a perdere.

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