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Il vero rinnovamento? Landini

25 Gennaio 2019

Gli esiti del Congresso della CGIL rappresentano un passaggio storico importante, la sanzione di una cesura maturata in questi anni, che dobbiamo senz’altro salutare ed accogliere come un fatto positivo. Il percorso congressuale è durato quasi un anno, ma solo negli ultimi mesi è arrivato ad occupare i media, sostanzialmente a causa della proposta – avanzata dalla Segreteria nazionale e giunta a buon fine nell’assise di Bari – di eleggere Maurizio Landini come nuovo Segretario generale.

Ora, per chi non si occupa di questioni sindacali quest’esito rappresenta un fulmine a ciel sereno (con relativo tuono), mentre per chi le segue distrattamente potrebbe essere la semplice conclusione di un confronto ai vertici, fra Landini e l’autocandidatosi sfidante Vincenzo Colla, portatori di “sensibilità diverse” come è stato detto. Diffusa è anche la tentazione di interpretare l’elezione dell’ex leader della FIOM a segretario nazionale della CGIL come un residuo del passato, la testimonianza di un sindacato che non riesce a smarcarsi dal Novecento. Queste letture hanno però la grande pecca di essere superficiali, erronee e profondamente fuorvianti. Infatti, a ben vedere, il XVIII Congresso della Confederazione Generale Italiana del Lavoro non è stato tanto la lotta per il posto di Segretario nazionale, ma il culmine di un processo avviatosi sotto la segreteria di Susanna Camusso e che ha portato a grandi novità nell’orientamento dell’organizzazione sindacale, e di cui l’elezione di Landini non è che il segnale esteriore più evidente, capace di far notare la novità anche ai meno informati.

La scelta di Landini rappresenta senz’altro per il sindacato un’opzione in grado di riconnetterlo in maniera più diretta con il sentire della propria base – che lo voleva a stragrande maggioranza – e più in generale di buona parte del Paese. Landini è un leader pop, affabile, disponibile, molto vicino alle persone con il suo stile oratorio, combattivo, anche un po’ populista nel senso buono del termine. Uno che si mostrava agli operai con la felpa della FIOM e stava con loro davanti al ministero a prendersi le manganellate se ce n’era bisogno. E, cosa che non guasta assolutamente in un tempo in cui la sinistra politica è sostanzialmente composta da professionisti e piccoli rampolli cooptati, proviene direttamente dal mondo del lavoro, come Di Vittorio, e si è fatto strada con l’impegno sindacale. Insomma una figura popolare, che ha tutti i requisiti per diventare un leader amato, ed in parte lo è già. Ma se il Congresso della CGIL e l’elezione di Landini si riducessero a questo sarebbero assai ben poca cosa, e tutto sommato non avrebbero nemmeno la speranza di mettersi al riparo dalle repentine cadute e disillusioni che hanno caratterizzato tante vicende del recente passato. 

Ed infatti c’è di più da evidenziare e e questo di più fa ben sperare, proprio perché il congresso della CGIL è stato di più della semplice elezione di Maurizio Landini. In questi anni la Confederazione ha recuperato l’eredità di Giuseppe Di Vittorio, il sindacalista del popolo-lavoratore di origini bracciantili. Riprendendo proprio Di Vittorio, ha proposto un nuovo Piano del lavoro, dalla forte impostazione keynesiana, propugnando forme energiche di intervento e pianificazione statale nell’economia. Tenendo ferma la barra della rappresentanza generale del mondo del lavoro, inteso come mondo dei subalterni e quindi di chi si trova a vivere condizioni tali nella propria attività lavorativa, ha esteso il proprio sguardo alle nuove figure del mondo del lavoro, nella direzione di fornire servizi, forme organizzative e rappresentanza alle molteplici figure precarie e atipiche, in collaborazione e a partita IVA che popolano il mercato del lavoro nel XXI secolo.

La CGIL si è mossa cioè nella direzione di rigettare l’offensiva ostile che cerca di dipingere i sindacati come residuati novecenteschi dediti alla rappresentanza esclusiva di un lavoro limitato ai dipendenti a tempo indeterminato e “previlegiato”, scorgendovi a ragione uno dei grimaldelli utilizzati dall’apparato ideologico neoliberista per portare dei colpi fatali ai diritti del lavoro ed alla qualità della vita della cittadinanza, e ha puntato a ribaltare l’argomentazione per rimarcare che non di “previlegi” da eliminare si trattava ma bensì di tutele da estendere a quella parte di mondo del lavoro che ne era, e ne è, privo.

Su questa scia è arrivata la rottura con il PD renziano, con un partito che all’opposto introiettava l’ideologia reazionaria del neoliberismo più sfrenato ed insofferente verso le organizzazioni dei lavoratori, abbandonando le istanze storiche della sinistra per farsi portatore di quelle dei suoi tradizionali avversari. Una rottura che si è espressa principalmente nel duplice passaggio del no al Jobs act e alla riforma costituzionale nel referendum del 2016. Scelte rivelatesi azzeccate per il sindacato, in sintonia con le aree più bisognose del Paese, e che lo hanno messo in rotta di collisione frontale con un PD che, mentre si propugnava erede dei partiti che erano stati storicamente di riferimento per la CGIL,  aveva però definitivamente acquisito un altro DNA. Una divaricazione politica, antropologica, sociologica e culturale enorme e che a tutt’oggi fatichiamo a cogliere appieno nella sua portata storica. 

Non è un caso se i più feroci critici del percorso della CGIL e della figura di Landini, in particolare sui social network, di solito abbiano avuto tempo in tasca nel corso della loro vita di avere una tessera del PCI o del PSI. La maggioranza di quella generazione dopo l’89 ha cambiato rotta, allontanandosi dai bisogni e dal sentire dei ceti popolari e di chi lavora, incantata dalle sirene del neoliberismo e confusa da un ventennio di antiberlusconismo, divenendo di fatto una “generazione perduta”, orfana della sua base sociale e messa fuori gioco dalla crisi economica globale del 2008 e dalle sue conseguenze, che hanno fatto anche esplodere drammaticamente il divario in cui viveva. Un divario da cui il sindacato, che giocoforza si confronta quotidianamente con i problemi delle persone e con le tante crisi delle famiglie e dei lavoratori, è rimasto alla larga, è che poco a poco è arrivato a porre le due parti su strade diverse.

E, fino ad oggi, il sindacato ha saputo trovare la forza e le risorse politiche, culturali e organizzative per restare sulla carreggiata senza sbandare e precipitarne fuori. In questo senso vanno interpretate le mosse politiche caratterizzanti gli ultimi anni, inedite, dalla raccolta firme per i 3 referendum sui voucher, sui licenziamenti e sulle norme degli appalti, fino alla proposta di legge di iniziativa popolare per la Carta dei diritti universali del lavoro, un nuovo Statuto che inquadri e regoli il lavoro nel secolo in cui ci stiamo inoltrando opponendosi alla deregolamentazione selvaggia, alla caduta verticale dei diritti e alla frammentazione sociale nel nome di una nuova unità del lavoro. In questo senso va interpretata anche la parola d’ordine dell’inclusione, nel duplice senso della pratica squisitamente sindacale della contrattazione inclusiva e in quella, a cui accennavamo, di aprire le porte delle Camere del lavoro e della Confederazione alle nuove figure subalterne.

Percorsi e sviluppi giunti a maturazione nel documento congressuale, che già nella sua genesi ha segnato una novità, con una discussione sui suoi contenuti attraverso un percorso partecipativo interno durato mesi, con migliaia di assemblee in tutta Italia che hanno coinvolto la base della CGIL. Né è venuto fuori un documento largamente condiviso che ha raccolto il 98% dei voti e che nei contenuti afferma posizioni impensabili fino a pochi anni fa, specie per gli osservatori meno attenti. Per riprenderne solo alcuni, la CGIL si schiera contro la norma del pareggio di bilancio in Costituzione e il fiscal compact, argomenta a favore della costituzione di una nuova IRI chiedendo un’Agenzia per lo sviluppo industriale, si propone la rappresentanza e la tutela del lavoro autonomo, discute le criticità dell’attuale assetto europeo e le distorsioni create dal mercato unico, si propone di individuare nuove forme di conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita e di svolgere la propria attività di contrattazione e di rivendicazione sulle frontiere della trasformazione tecnologica, ragiona sopra a un reddito di garanzia per coprire i periodi di disoccupazione, mentre al tempo stesso si fa strada – fuori dal documento – la discussione sul lavoro garantito dallo Stato. Ne emerge un quadro in movimento, dove non mancano le timidezze, prima fra tutte una ancora non del tutto chiara messa a fuoco degli assetti e della natura del capitalismo in questa nuova fase storica, e una serie di questioni minori disseminate intorno alle svariate problematiche aperte nelle realtà socio-economica disastrata del Paese su sui si può senz’latro fare di più. E non mancano nemmeno le perplessità e le opposizioni interne, che agiscono spesso da freno, ma la strada è stata imboccata.

Insomma, dopo aver cercato prima della crisi del 2008 di governare le trasformazioni, il vento è cambiato per il sindacato di Corso Italia, che ha preso atto del nuovo contesto, e Landini è diventato il simbolo di questo cambiamento. Ed infatti la sua candidatura è stata avversata ferocemente, da La Repubblica fino a Libero, ovvero da tutta la stampa che, con “sensibilità diverse”, milita nel campo neoliberista e vede di malocchio l’esistenza stesse delle organizzazioni sindacali.

Da questo punto di vista, la sua elezione sembra rappresentare quel vento di rilancio che è già soffiato sul Labour Party inglese con l’elezione di Jeremy Corbyn e negli Stati Uniti con la ribalta di Bernie Sanders e della più giovane Alexandria Ocasio-Cortez. L’anomalia italiana è che questo avvenga nel sindacato e non nelle strutture partitiche, che affondano ogni giorno di più nella palude in cui sono finite. La ragione di questa peculiarità va senz’altro ricercata nella divaricazione di cui parlavamo, nella capacità del sindacato in Italia di mantenere il suo ancoraggio di classe e curare la propria organizzazione, e di converso nell’incapacità del PD e del resto dei partiti della sinistra di fare altrettanto. Un aspetto quest’ultimo da sottolineare. In un epoca in cui il capitalismo globale punta sull’affermazione di una cultura individualista e su rapporti di lavoro non collettivi ma individuali – dal sapore ottocentesco – ed il cui corollario è la liquefazione delle organizzazioni collettive, a cominciare dai partiti, il ruolo delle organizzazioni collettive per prefigurare uno sviluppo ed un avvenire diverso, comunitario e solidale, diventa strategico e centrale. Gli sviluppi internazionali in paesi come la Spagna e la Francia, oltre ai casi inglesi e americani già citati, ci raccontano di un ritorno del partito come organizzazione collettiva necessaria allo sviluppo di una politica progressista. Se è così, quei sindacati che non sono venuti meno alla propria identità di organizzazioni collettive del lavoro subalterno diventano a loro volta strategici e quanto mai necessari in una fase storica in cui si affermano neo-autoritarismi e forme di governo post-democratiche. 

Sbaglierebbe ad ogni modo chi ne traesse la conclusione che nell’anomalia italiana sia il sindacato, e Landini come suo leader, a diventare l’elemento costitutivo di una nuova sinistra o addirittura di un’istanza socialista. Perché la CGIL in questa fase non solo rivendica a ragione la propria autonomia dai partiti – pur riaffermando al tempo stesso il suo ruolo politico – ma la stessa “supplenza sindacale”, ruolo non certo inedito, ha ovviamente i suoi limiti e può al massimo contribuire ad indicare una via, i temi, i bisogni, il “sentire” a cui prestare orecchio e che dovrà caratterizzare un nuovo “partito dei subalterni”, ma non può farsene carico e sostituirlo. I compiti, gli strumenti e i ruoli dei sindacati e dei partiti sono diversi. Così come sbagliano i partiti  – e ancor di più i leader di governo da questi espressi – che tentato di sostituirsi ai sindacati, sbaglierebbe il sindacato a fare le veci del partito. Il sindacato rappresenta i lavoratori di fronte al potere – qualsiasi potere – ed avanza anche le proprie proposte politiche, interviene e dice la sua sulle grandi questioni di governo, ma non è il suo ruolo governare , bensì difendere, tutelare, rivendicare (una funzione centrale dentro a una società agonistica, per riprendere Chantal Mouffe). E se ci si mette nell’ottica di costruire un ordine nuovo, democratico e più avanzato di quello attuale, è giusto che sia così.

(foto di Marco Monetti)

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