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L’eterno ritorno del Partito degli Onesti

6 Gennaio 2019

È strano che laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatorie, nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini d’altra natura. B. Croce

La politica italiana, per gestire quei pochi spazi che le sono stati lasciati, avrebbe di sicuro bisogno di un partito di onesti, ossia di gente che si ponesse con onestà al servizio del mandato che gli è conferito, e che con onestà lo eseguisse. Che si ponesse cioè con onestà nei confronti dei contenuti politici e che con onestà cercasse di raggiungerli. Una volta gestiti al meglio quei pochi spazi, occorrerebbe che questo partito tentasse, sempre con onestà, di recuperare alla politica i troppi spazi che l’economia le ha portato via.

Quello che si ha da tempo ormai è invece un “partito degli onesti”, che pone cioè l’onestà al posto dei contenuti politici. Perdendo così di vista, in definitiva, la politica sostanziale, in favore della ricerca dell’onestà assoluta.

Se nell’ultimo quarantennio si sono visti molti partiti che hanno abbandonato i propri programmi per diventare il “partito degli onesti” (il PCI di Berlinguer, il PRI di Spadolini, l’IDV di Di Pietro…), oggi si è arrivati, con il Movimento Cinque Stelle, al partito degli onesti perfetto. Il M5S non ha aggregato i propri componenti sulla base di comuni idee politiche, ma solo sulla base di un generico e molto forte desiderio di onestà: di parlamentari senza sussidio, senza auto blu, senza scorte e senza escort (a meno che non siano pagate di propria tasca, con possibilità di dimostrarlo).

La nascita e il grande successo del M5S, con l’indubbio merito di avere aggregato il vastissimo dissenso ed avere, grazie alla rete, avvicinato alla politica gente che probabilmente non vi si sarebbe mai accostata in altro modo, riporta in primo piano l’annosa “questione morale”, che in Italia si ripropone ad ogni decennio con una nuova veste e nuovi attori.

La questione morale non è nulla di nuovo. Anzi è vecchia come il mondo, così come vecchia è la disonestà, appunto. Nella Atene di Pericle gli interessi per la costruzione di questo o di quel tempio in questa o in quella posizione non erano affatto solo di natura religiosa o mistica, e così nella Roma repubblicana e imperiale; non parliamo del medioevo.

Se riduciamo il raggio storico alla nascita dell’Italia come stato nazionale, vediamo che le accuse di malversazione e corruzione volano tra deputati liberali e progressisti fin dalla prima seduta del parlamento Subalpino. In questo rincorrersi di accuse, scandali e dimissioni (molto spesso fondate, peraltro) va cercato però il filo rosso che, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, ha attraversato il ciclico comparire della questione morale. Essa si è rivelata, con il crescere dell’importanza della comunicazione di massa, un perfetto diversivo per far parlare d’altro nei momenti peggiori. “Perfetto” perché fondato su fatti veri (ingrandibili poi a piacere) e “diversivo” perché in grado di spostare l’attenzione della gente come null’altro.

Quando nel 1943 Vittorio Emanuele sostituisce Mussolini con Badoglio, quest’ultimo – trovandosi a dover fare uscire l’Italia dalla guerra nel modo meno disonorevole possibile (e sapendo che l’impresa è ancor più difficile che continuare la guerra e vincerla) – getta immediatamente in pasto agli italiani la questione morale, facendo pubblicare per un mese di fila sui giornali tutti i casi di corruzione dei gerarchi fascisti nei ventuno anni precedenti (esiste anche una canzone partigiana che ironizza sulla vicenda).

L’Italia strettamente contemporanea, che è passata da potenza industriale sociale, con un ceto medio in grado di condurre una vita a misura d’uomo (casa, lavoro, famiglia), a stato postindustriale e postapocalittico (senza strutture e con una massa crescente di indebitati consapevoli), ha visto l’utilizzo della questione morale come diversivo per ben tre volte.

La prima alla fine degli anni settanta dall’allora segretario comunista Berlinguer e dall’allora direttore di Repubblica Scalfari. Malgrado si sia in pieno compromesso storico (governi come sempre democristiani, ma con il Partico Comunista che non vota la sfiducia), Berlinguer è più isolato che mai. Dopo aver salvato il partito dal possibile sgretolamento che l’invasione di movimenti extraparlamentari avrebbe potuto provocare nel decennio della contestazione, il segretario del PCI (che ha integrato base e quadri con nuove forze non provenienti da contesti strettamente proletari e che si sta lentamente e personalmente allontanando dalla casa madre sovietica) deve fronteggiare un minacciosissimo avversario: il nuovo segretario socialista Craxi.

Il partito socialista, infatti, con la nuova classe dirigente cosiddetta “dei quarantenni”, mira a togliere il partito dalla autorevole stagnazione dell’era Nenni e dalla sonnolenza della segreteria De Martino, e soprattutto a far saltare il compromesso storico, riconfinando i comunisti all’opposizione e rifondando un governo di centro sinistra, con un ruolo questa volta da capitani e non da gregari della DC. Per portare a termine tutti questi risultati – che centrerà nel giro di cinque anni – Craxi deve sparare a zero sul PCI da destra e da sinistra (arriverà anche a finanziare Il Manifesto).

La questione morale viene in soccorso a Berlinguer come contenuto del suo rinnovamento altrimenti zoppo: c’è ancora – dirà – una differenza per la quale i comunisti vanno preferiti ai socialisti. I comunisti sono gli onesti, mentre i socialisti rubano. La formula, elementare quanto campata in aria, trova fortuna e riempie sempre più il programma di un partito che si appresta a vivere il suo ultimo decennio prima di cambiare nome, simbolo e riferimenti.

Se davanti ai socialisti (più in generale ai politici) che “rubano” per decenni ci si è “dovuti turare il naso” per evitare il peggio (ossia la sovversione radicale), una volta caduti i muri, la questione morale trova nuova vita come diversivo non più di un solo partito, ma di un paese intero.

Questo tema viene così impiegato come diversivo per la caduta della Prima Repubblica (e la contemporanea firma dei trattati europei), non prima però di avere subito un rovesciamento dialettico dalla sinistra (Berlinguer e Scalfari) nella destra (Di Pietro nella variante incolta, e Travaglio in quella semicolta).

L’emergere dalle ceneri del sistema di un personaggio come Berlusconi, capace di fare da riferimento al vecchio elettorato del pentapartito (che mai avrebbe voluto gli ex PCI al governo), ha consentito alla questione morale, rinnovata, di attecchire al meglio e di assurgere ad unico contenuto dell’opposizione per il ventennio a venire.

Da possibile cardine di un partito di opposizione (seppure molto grosso ed importante), la questione morale è divenuta unico contenuto dell’intero fronte antiberlusconiano (e l’unico collante, considerato che tale fronte ha unito ciò che la semplice politica dei partiti non avrebbe mai nemmeno avvicinato: Bobbio a Sabina Guzzanti, Scalfaro a Montanelli, Di Pietro a Rutelli, D’Alema a Prodi).

Oggi viviamo nell’epoca del post berlusconismo. È una classificazione fittizia, contestabile ed incompleta (dal momento che “il noto non è ancora conosciuto”, come scriveva Hegel), tuttavia è una classificazione che ha un senso, perché per venti anni Berlusconi è stato il contenuto della politica italiana. Della maggioranza che lo votava e dell’opposizione che non lo voleva. Tolto di mezzo Berlusconi, non solo non si riesce più ad avere la prima, ma nemmeno la seconda, la quale, vivendo solo di antiberlusconismo, si è sgretolata.

In questo contesto si sviluppa la sintesi perfetta della questione morale, il Movimento Cinque Stelle, ossia una forza che si vanta di non avere un passato politico ideologico poiché tutto quanto è politico è corrotto e che, nelle sedi istituzionali finisce per comportarsi in modo asettico e spiazzante, a scapito di questioni politiche cruciali. Questo si verifica perché si tratta di persone (non accomunate da una visione politica condivisa bensì solo da generica voglia di onestà) costrette loro malgrado a occuparsi proprio di politica.

È difficile pensare ad una cospirazione, come alcuni teorizzano. Tale lettura complottista ipotizzerebbe che il neoliberismo (antistatalista, privatizzatore e precarizzatore), abbia vinto così largamente da riuscire ad incanalare il vastissimo dissenso sociale da esso prodotto in un partito che allontana ancor più la gente dalla politica. Ma il Movimento Cinque Stelle, probabilmente, è stato solo fortunato, come Napoleone ad Austerlitz, quando dopo aver vinto militarmente è stato favorito anche dal mutamento metereologico.

Complotto o non complotto, è oggi necessario fare i conti con un movimento che, tralasciando il semplicissimo assunto crociano per cui il politico più onesto è il politico capace, ha finora al proprio attivo solamente una forte e giacobina premessa di onestà, e nient’altro. Assumere questo o quel consigliere esperto una volta eletti non è fare politica: le idee in comune le devi possedere quando fondi il partito.

Sono passati dieci anni dal primo esperimento Cinque Stelle, il furioso “V Day” per le piazze d’Italia, con Di Pietro e Travaglio sul palco. E sono passati cinque anni dal loro ingresso in Parlamento. Oggi, alla vigilia delle elezioni, promettono l’assalto agli stipendi dei sindacalisti proprio come cinque anni fa promettevano quello agli stipendi dei deputati. Ci si deve quindi preparare al fatto che, anche questa volta, non avranno un programma politico e che – se andranno al potere, come pensa Di Maio – non lo realizzeranno. Ancora peggio, essi mireranno giusto sbagliando il tiro, considerato che lo stipendio dei sindacalisti ha la stessa funzione di quello dei parlamentari, ossia consentire a tutti di poter assumere la carica di deputato o di sindacalista.

Si otterrà così lo stesso effetto dell’abolizione del finanziamento pubblico alla stampa, primordiale crociata di Grillo. L’Italia è piena di giornali spazzatura che andrebbero chiusi subito, ma togliendo il contributo pubblico stamperà solo chi ha i soldi per farlo, e quindi tutto il “quarto potere” tornerà nelle mani dei soliti pochi, potentissimi gruppi.

Qui non si dubita della buona fede del M5S (soprattutto della sua base). Si deve però cercare il modo di convogliare tutta questa onestà in qualcosa di realmente politico, e ciò deve avvenire molto in fretta.

L’onestà è una risorsa importantissima per la convivenza civile: non ci voleva un partito politico per dimostrarlo. Se però essa resta fine a se stessa, andremo tutti in paradiso dopo esser tutti morti di fame.

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