Cultura | Politica

L’inefficacia dell’antifascismo identitario

11 Febbraio 2018

Apro Facebook e sembra che il fascismo sia sul punto di tornare al potere. Mi immagino già orde di teste rasate, lucidi anfibi in mostra, passi compatti, serrati e qualcuno che, dai margini, tambureggia ritmi marziali, preludio di una nuova marcia su Roma. E, dulcis in fundo, masse informi ormai conquistate da un nuovo mito millenarista. Magari sono solo io, che vivo all’estero da un po’, a non averlo capito. Ma dopo qualche rapida consultazione, tiro un sospiro di sollievo. Non è così, la mia bolla di amici virtuali a volte gioca certi scherzi.

Di sicuro, non tira una bella aria. I giovani continuano a dimenarsi tra lavori precari che li costringono a mille rinunce, in un mesto destino che li accomuna ai percettori di pensioni sempre più magre. In molti temono per il proprio lavoro (si dice che ormai licenziare sia diventato un gioco da ragazzi), mentre i servizi pubblici, duole dirlo, lasciano sempre più a desiderare. Senza contare che sì, quello che è successo sabato scorso a Macerata è davvero il sintomo di un marcio profondo.

Ma andiamo per ordine. Dicevamo che il fascismo non è di nuovo in auge. I suoi autoproclamati eredi navigano ben al di sotto dell’1% nei sondaggi in vista di elezioni ormai imminenti. In un Paese da 60 milioni di abitanti, non contano che poche migliaia di attivisti, trattati dalla stragrande maggioranza dei cittadini alla stregua di un manipolo di squilibrati. A volte fanno la voce grossa e si comportano da bulli quando, nottetempo, si trovano in soprannumero in qualche vicolo. Un grattacapo di ordine pubblico, più che un problema politico.

Indubbiamente, ci sono altre forze che giocano con parole d’ordine pericolose. Vedi la Lega. Le sue consegne sono ripudiabili ed è fuor di dubbio che abbiano favorito quel clima che ha messo in testa a uno psicolabile come Luca Traini la folle idea di sparare a dei ragazzi di colore inermi. Se vogliamo essere sinceri però, la Lega non c’entra appieno con il fascismo e il paragone con gli anni 20 mostra dei limiti. Il fascismo si appoggiava in un movimento reale che mobilitava miti collettivi, con pretese utopiche. Tutto ciò non esiste più: l’orizzonte è meramente elettorale e rivolto al presente. Come non esistono, nei populismi di destra, mire espansionistiche, un accento militarista, una visione totalitarista, il culto del sacrificio. Non si tratta di minimizzare: bisogna conoscere bene i propri avversari per capire come disinnescarli meglio.

In questo senso, un altro fronte di riflessione è comprendere perché, in primo luogo, insorgano fenomeni come quello della Lega, che poi è analogo a quello di Trump e di Le Pen. Non occorre essere un determinista per pensare che oggigiorno esistano le condizioni materiali adatte affinché la gente, esasperata, si getti nelle braccia della destra. D’altronde, non serve nemmeno essere degli xenofobiincalliti per trovare nella retorica di un Matteo Salvini una promessa di redenzione, per quanto farlocca. A volte, basta solo essere molto incazzati.

In Eredità del nostro tempo, il filosofo Ernest Bloch fa i conti con il nazismo. Qui il paragone con il passato si fa più interessante. L’ascesa di Hitler, analizza Bloch, fu dovuta alla capacità di assorbire le rivendicazioni frustrate che covavano in seno alla società tedesca, tutte energie che avrebbero potuto essere di trasformazione positiva, ma che furono invece veicolate da una politica di odio. Nello stesso testo, non vengono risparmiate critiche al partito comunista tedesco, incapace di comprendere e far tesoro dell’eredità che il proprio tempo gli offriva.

Ma non è proprio quello che sta accadendo? Forse è proprio nella necessità di ereditare dal presente e non dal passato che radica la miglior forma di invertire certe tendenze, confrontando fino in fondo quanto di estraneo ci sia nel familiare, come direbbe lo stesso Bloch. Ricorrere a miti ahimè sbiaditi come l’antifascismo nella sua forma più identitaria, criticando i soggetti xenofobi da un piedistallo morale, equivale a creare una sorta di cordone immunitario intorno a loro, un po’ come in certi film di fantascienza dove sparare agli alieni non fa altro che rafforzarli. Combattere efficacemente le derive razziste non consiste nel ripulire la società da germi contaminatori, bensì nel togliere loro terreno da sotto i piedi ricreando alleanze tra i soggetti più vilipesi dalle condizioni attuali. Per farlo, è necessario chiamare con il loro nome i problemi del nostro tempo – austerità, disoccupazione, precariato, povertà – e reclamare con maggior incisività quello che ci sembrava nostro: un po’ di protezione, un vivere migliore.

 

Pubblicato su Il Fatto Quotidiano (online) il 10/2/2018.

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