Cultura | Politica

Andiamo a riprenderci quello che è nostro

23 Dicembre 2017

Discorso pronunciato dal neo-Presidente di Senso Comune al termine dell’Assemblea Nazionale “Sanar le piaghe” celebrata a Parma il 16 dicembre 2017. 

 

Buona sera a tutte, comunarde; buona sera a tutti, comunardi:

Voglio innanzitutto ringraziarvi per essere qui, quest’oggi, a contribuire attivamente al futuro di Senso Comune, a forgiarne i contorni, a tessere in maniera sempre più fitta le maglie della nostra proposta. Quanto bisogno c’era di questi dibattiti che abbiamo realizzato insieme. E di quanti ce ne sarà ancora bisogno, più avanti, quanta altra strada andrà fatta nel percorso di crescita politica che abbiamo intrapreso.

E ciò è particolarmente importante per un soggetto ancora ibrido come il nostro, ma che si appresta a dissipare, a lasciare indietro queste ambiguità, a definirsi sempre di più, a decidere cosa vorrà fare da grande. Perché mi sembra che quello che vogliamo fare da grandi sia sempre più chiaro a tutti, l’ho visto negli occhi e sentito nelle parole di molti quest’oggi, ed entriamo in un momento delicato, badate bene, di accelerazione politica, in cui ci sarà bisogno di sciogliere ogni riserva e dichiarare con decisione dove vogliamo andare. Bisognerà farlo con accortezza e ponderando bene ogni mossa. Senza impazienza, come diceva oggi Paolo Gerbaudo. Ma bisognerà farlo.

Siamo una comunità ancora piccola, in termini assoluti, è vero, ma grandissima se consideriamo che è stata generata in mezzo a un’esiguità di risorse immensa e che è stata capace di mettere in campo quel discorso politico così alto, così elevato, così articolato che abbiamo visto sinora, e in particolare quest’oggi. Grandissima se consideriamo che è riuscita ad attrarre un’attenzione così ampia e a suscitare persino la simpatia di soggetti molto più grandi di noi, come ne è testimone la grata presenza di Djordje Kuzmanovic, portavoce internazionale de la France Insoumise di Jean-Luc Melenchon. Grandissima se consideriamo che si è appoggiata sulle poche ore libere che ciascuno di noi riesce a mettere a disposizione, sui sacrifici votati a una causa comune, sulle ore strappate ai propri cari, sulle gomme dell’auto di Nencioni, sui volantini distribuiti da Poggi, sui post scritti da Gerbaudo, sui video realizzati da Di Giacomo, sulle riflessioni di Fazi: infine, sulla volontà di ciascuno di noi a cambiare lo stato di cose presenti. Non ci deve sfuggire che i ragazzi e le ragazze di Podemos, quando iniziarono il loro percorso, non erano più di una trentina: ma avevano le idee e la strategia giuste e ora sappiamo bene tutti quanti dove sono arrivati: a costituire una delle più grosse minacce agli interessi delle èlite del loro paese.

Ecco, mi sembra che, con un questo riferimento, la destinazione da raggiungere sia chiara e condivisa da tutti, così come lo è d’altronde buona parte dell’analisi.

Dopo la crisi del 2007, siamo stati testimoni e vittime di feroci politiche di austerità, implementate in tutta Europa oltre ogni ragionevolezza economica, se non quella ad uso e consumo delle oligarchie di questo continente. Queste politiche hanno progressivamente smantellato quei servizi pubblici che costituirono il cuore delle conquiste ottenute nel secolo passato, e abbassato sostanzialmente salari reali e standard di vita della popolazione. Quella relativa sicurezza economica e sociale di cui furono protagoniste quasi due generazioni, è ormai in frantumi.

Ne vediamo i sintomi, ormai palpabili: una crescita asfittica, incapace di assorbire una disoccupazione dilagante, mascherata peraltro da statistiche meschine che contabilizzano come occupato persino chi lavora appena poche ore a settimana, fenomeno a cui hanno fatto riferimento gli economisti comunardi stamane. Ma lo vediamo soprattutto nel dilagare della miseria, nelle file fuori dalle mense, nelle difficoltà delle famiglie italiane di arrivare a fine mese, nei salari che a malapena coprono i costi degli affitti. Per i giovani poi, le politiche di austerità sono state e continuano ad essere uno schiaffo in faccia, di cui portiamo costantemente il segno sulla guancia. La precarietà del mondo del lavoro ha reso queste esistenze fragili, facendo a pezzi le legittime aspirazioni di una vita decente a cui eravamo stati indotti a sognare durante l’adolescenza. In un  beffardo rovesciamento delle parti, mentre i nostri genitori crebbero senza sogni di gloria per poi vedere materializzarsi un relativo benessere economico, noi, cresciuti in mezzo ai sogni di gloria, siamo infine rimasti con un pugno di mosche in mano. La mancanza di opportunità ha poi costretto migliaia di noi alla fuga, 285 mila soltanto nel 2016, facendo dei giovani italiani i camerieri d’Europa, come bene ebbe a dire Marta Fana in una lettera indirizzata al ministro Poletti. Il quale, pochi giorni prima, aveva impunemente dichiarato che era meglio se in molti di noi se ne andavano fuori dalle balle. A fronte di cifre così vergognose, è chiaro quindi che non si possa più parlare di cervelli, ma di cuori in fuga: un esodo di migliaia di storie di ordinaria frustrazione che nei discorsi sulle start-up dei 5 Stelle, nei mirabolanti quanto vuoti giochi di parole di Renzi e nelle boutade razzistoidi di Salvini non possono che trovare delle risposte inadeguate e fuorvianti.

Tutto ciò diviene ancora più odioso, più insopportabile, più putrido, se consideriamo l’accumulo sfacciato di ricchezza enormi da parte dei segmenti più privilegiati, i quali ammassano fortune grazie ai metodi più disparati: attraverso l’evasione fiscale – di cui sono responsabili in primis i grandi gruppi multinazionali -, attraverso l’invenzione di nuove forme per immiserire chi lavora – vedi le piattaforme digitali -, attraverso le delocalizzazioni che spogliano il nostro paese del suo tessuto industriale storico, attraverso i licenziamenti resi più facili dal signor Renzi, attraverso una politica di austerità che paradossalmente attiva lo Stato per salvare le banche da finanzieri senza scrupoli, ma senza nazionalizzarle o “pubblicizzarle” per davvero, mentre di cacciare fuori i soldi per saldare il deficit sociale accumulato fin qua non se ne parla nemmeno. Una società che voglia ancora fregiarsi di essere considerata democratica non può ammettere nel proprio seno disuguaglianze di questa portata, dove c’è chi ha troppo e chi niente.

E non bastano le parole melense, vuote e ampollose, perché tutti, a parole, lanciano sermoni su quanto sia oscena e incresciosa questa situazione. I cittadini chiedono a gran voce protezione di fronte a eventi traumatici che scuotono le loro vite e le rendono più incerte, a volte persino invivibili come testimoniano i casi di depressione e di ansia da cui sono colpite sempre più persone. Ed è proprio in questo solco di scoramento diffuso, di domande sociali disattese, di rivendicazioni spesso nemmeno rese esplicite da chi ne porta addosso il peso perché considerate indicibili, che Senso Comune si deve muovere.

La gente non vede più nella deregolamentazione dei mercati e nella globalizzazione la soluzione ai loro problemi, bensì la causa. I cittadini non nutrono più fiducia in parole d’ordine come “liberalizzazioni” o “aperture dei mercati”, ma nemmeno, se è per questo, nell’invocazione apodittica e fine a se stessa di più sinistra. Il popolo inizia legittimamente a dubitare persino dell’Unione Europea, in maniera ancora cauta e progressiva, ma altrettanto ineluttabile.

È per questo che non possiamo che nutrire una sana allergia nei confronti di chi parla di lavoro, ma non contempla di stracciare il pareggio di bilancio e anzi l’ha votato in parlamento; di chi parla contro l’austerità ma non concepisce di mettere in questione i trattati europei che la impongono; di chi parla di connettersi con le nuove classi disagiate ma continua a rivolgersi solamente a se stesso. Non si tratta di fare l’esame del sangue agli altri, come dicono alcuni, ma di comprendere che chi è stato corresponsabile della rovina del nostro Paese non può ora verosimilmente indossare i panni del redentore. Le biografie politiche contano: non è una questione morale, ma politica, anche perché l’orizzonte in cui si muovono taluni, quello del centro-sinistra e delle geometrie elettorali, è tutto fuorché ciò di cui l’Italia ha bisogno.

Ma facciamo fatica ad emozionarci anche nei confronti di chi, seppur più genuinamente, cerca di risollevare dalla polvere arnesi un po’ vetusti, motti andati, simboli che non significano più nulla alle persone non coinvolte quotidianamente nella lotta politica. Siamo coscienti di quanto furono pregni di significato e portatori di speranze nel passato, certi simboli, certe parole; ma altrettanto coscienti siamo del fatto che viviamo in un’epoca diversa, in cui il loro valore evocativo è ormai logoro. Anche questo, quindi, è bene dirlo senza giri di parole: qualsiasi prospettiva di unione della sinistra, di unione delle lotte, di unione dei convertiti stona con il leitmotiv per cui siamo nati. Per questo dobbiamo smettere di parlare alla sinistra e di occuparci dei suoi stupidi e inutili bisticci, e rivolgerci alle maggioranze sociali, calarci nel loro mondo, nei loro problemi, nel loro vocabolario: è in quelle quotidianità tormentate che abbiamo il nostro interlocutore privilegiato. In altre parole, c’è bisogno rappresentare i non rappresentati, di organizzare i non organizzati, di ridare speranza a chi è sfiduciato.

Vogliamo quindi creare quel nucleo che, facendo leva sui giovani ma avanzando una proposta per tutta la società, non cada nella Scilla del ribellismo da strapazzo né nel Cariddi nell’opportunismo carrierista e istituzionale. Un nucleo nuovo che, senza dover alcunché a padrini e sponsor  troppo ingombranti, sappia davvero innovare la maniera in cui si fa politica, l’antropologia con cui ci si relaziona ai non rappresentati.

Per farlo crediamo che siano necessarie alcune cose. Innanzitutto, dobbiamo rinunciare a una retorica, a un’estetica di opposizione fine a se stessa, liberandoci dalla mentalità di resistenza, dal fare narcisista e trasgressore di un certo modo di concepire la militanza. Non ci piace quel recinto residuale, di testimonianza e faremo di tutto per impedire ai nostri avversari di confinarci nell’angolino: non glielo dobbiamo permettere. Noi vogliamo rappresentare l’aspirazione della gente normale a condurre una vita normale, in pace, fatta di lavoro e di benessere. Al contempo, dobbiamo essere capaci di proiettare un ordine alternativo a quello attuale, la capacità cioè di rendere credibile, seria e attuabile la nostra proposta, conferendogli un contenuto positivo e ottimista. Non solo furia distruttrice e iconoclasta dunque, ma anche e soprattutto un discorso che possa attrarre i più, che sappia sottrarli dall’egemonia di quella fasulla aurea di serietà di cui è ammantata la politica dei difensori dello status quo.

In secondo luogo, abbiamo deciso di rompere un tabù e di fare riferimento alla patria, all’Italia. Rivendicare l’identità nazionale è utile perché crediamo che ci sia bisogno di un progetto di Paese e di intercettare quel bisogno latente di comunità, così lacerata dalle divisioni innescate dal mercato e dalla globalizzazione. Il nostro riferimento all’Italia però non è ispirato da uno stupido suprematismo o da un atteggiamento di repulsione verso chi è diverso: volere bene all’Italia, essere dei patrioti significa pensare al bene di chi abita questa terre, significa pensare in termini di una comunità inclusiva, aperta, plurale e che sappia coniugare le proprie tradizioni con quelle altrui. Significa federare i più deboli, quella maggioranza invisibile che ancora non sa di essere tale. Significa, nella pratica, più dottori e infermiere ben pagate, significa scuole e università di altissimo livello, significa politica industriale, significa partecipate pubbliche e meno privatizzazioni, significa diritti per chi lavora, significa lavoro per chi non ce l’ha o ce l’ha ma è troppo precario. Infine, significa riconoscere che in seno all’attuale configurazione politico-istituzionale dell’Europa si sono cristallizzate delle asimmetrie che relegano l’Italia a una posizione umiliante, e che noi, a questo gioco non ci stiamo. Voler bene all’Italia, in questa fase storica, significa anche rivendicare quell’autogoverno che ci è stato espropriato. Significa, in ultima istanza, rivendicare che la politica non sia condizionata dall’economia, significa maggior democrazia.

In definitiva, e qui concludo, abbiamo bisogno di un nucleo con capacità espansiva, che amalgami una pluralità di pulsioni di cambiamento, che provveda a generare un orizzonte di riscatto e che sia l’incarnazione di un popolo che ha sete di protezione e di giustizia. Sono molto orgoglioso di essere Presidente di un gruppo con obiettivi così nobili e formato da persone così meravigliose come quelle che mi stanno davanti.

Andiamo a riprenderci quello che è nostro. Se po’ fà.

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