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Tempi interessanti

10 Settembre 2019

L’Assemblea dell’8 settembre ha lasciato a tutte le comunarde e a tutti i comunardi un compito grande e terribile, quello di concorrere a formare un nuovo soggetto politico. Il compito, come è stato detto, di diventare grandi. Ma perché un nuovo soggetto politico? Un movimento o un partito non nascono come semplice atto volontario, c’è bisogno di una lettura autonoma della realtà, di un orizzonte di senso, di uno spazio politico da occupare. E l’insistenza con cui abbiamo agitato il tema della formazione deve essere piegata ad una analisi corretta, alla costruzione di uno sbocco conseguente, all’occupazione di uno spazio. Il nostro atto di nascita deve essere pertanto accompagnato da una estrema chiarezza in ognuna di queste direzioni, oltre che da una energia politica e da uno sforzo di entusiasmo fondamentali per superare gli ostacoli. Le note che seguono vogliono essere quindi un esercizio di chiarezza e un invito all’azione.

Dove siamo?

Siamo nella crisi. Le cause e le conseguenze sociali della crisi sono state più volte sviscerate nel corso della nostra esperienza politica di questi tre anni. Queste analisi hanno avuto un punto di caduta nella scuola appena tenuta a Frattocchie, uno straordinario successo organizzativo e intellettuale. Ma la crisi ha anche effetti immediati nella contingenza politica.

  1. La crisi agisce verso la distruzione delle fedeltà politiche tradizionali. I panorami politici e istituzionali dell’Occidente sono terremotati. Fenomeni politici consolidati tramontano (socialdemocrazia greca, francese e per certi versa tedesca), altri nascono e muoiono nel giro di pochi anni o addirittura mesi (il renzismo) e anche dove istituzioni rigide impediscono questo incedere impetuoso le leadership consumano in fretta la loro popolarità (ultime due presidenze francesi).
  2. La crisi agisce verso la distruzione del centro politico. Non si costruiscono progetti egemonici “rassicurando i moderati” ma agitando e interpretando le paure dei ceti popolari e medi che vedono il proprio futuro come incerto e pericolante. D’altro canto, in apparente paradosso, la depoliticizzazione generale e la ricaduta di vaste fasce di popolazione nel bisogno fanno emergere dal basso la richiesta di soluzioni immediate per la vita delle persone. Per rimanere al paradosso, si afferma la necessità di una sorta di pragmatismo estremista. Laddove, tanto per fare un esempio, la ri-nazionalizzazione di ampi settori dell’economia esce dai fumi dell’ideologia e si presenta come misura di buon senso, anche in vista della tanto sbandierata  ma poco praticata transizione ecologica.
  3. In conseguenza, non è scritto da nessuna parte che l’esito della vicenda abbia sbocchi verso situazioni precostituite. Non è assolutamente detto che dalla crisi se ne esca automaticamente con un balzo in avanti in senso democratico, come vorrebbe una parte della tradizione socialista di matrice ottocentesca; né che la destra sia destinata ad egemonizzare il panorama politico avvenire. Serve una proposta democratica e progressista adeguata che sappia contendere il terreno dell’egemonia nei termini concreti in cui la questione dell’egemonia si pone qui ed ora.

Cosa (non) siamo?

Per quanto sopra scritto, il terreno è fertile per la nascita di una forza politica nuova. Che però deve giustificare la propria esistenza a partire da un sano “spirito di scissione”, di identificazione a partire dalle differenze rispetto alle forze politiche già in campo.

  1. Non siamo la destra. Perché pensiamo che dalla crisi della globalizzazione non si esca con una proposta nazionalista, volta all’esterno a conquistare aggressivamente fette di mercato partecipando rapacemente alla corsa alla competitività internazionale; e all’interno alla creazione di frontiere politiche costitutive declinate in chiave etnica. Il Paese deve recuperare la propria autonomia in termini di cooperazione internazionale e la lotta politica deve polarizzarsi tra gli interessi delle grandi maggioranze sociali e i privilegi dell’oligarchia locale e internazionale.
  2. Non siamo la sinistra moderata. Perché l’ipotesi su cui il PD è nato in Italia e le “terze vie” si sono affermate nel resto d’Europa è stata spazzata via dalla crisi. Non c’è più, ammesso che ci sia mai stata, una società composta maggioritariamente da ceti medi desiderosi di apertura ai mercati dei beni e dei saperi e da animal spirits capitalistici da liberare, magari contemperati da welfare compassionevole e retorica dei diritti; ma un popolo impoverito e desideroso di protezione e di sicurezza sociale, di diritti allo studio e alla sanità, di tassazioni più eque.
  3. Non siamo la sinistra radicale. Perché non è tempo di rinculi ultra-identitari, di proposte che possono suonare punitive verso i ceti medi in via di impoverimento, di esaltazione del disordine. È il momento della costruzione di un ordine nuovo giusto e inclusivo, che sappia parlare non alle identità politiche costituite da 70 anni ma a tutti coloro che hanno sofferto e soffrono la crisi.
  4. Non siamo il Movimento 5 Stelle. Perché l’eterogeneità è una strategia imprescindibile nel calderone della crisi, ma essa non può andare a detrimento della chiarezza degli obiettivi e della determinazione nella loro persecuzione. E perché purtroppo non è vero che uno vale uno, ma piuttosto uno deve valere uno. Quell’uno va però formato politicamente e promosso con scelte trasparenti, altrimenti diventa facilmente spettatore passivo della burocratizzazione della politica invece che attore del suo cambiamento.

Questa serie di riflessioni non deve condurre all’isolamento, tutt’altro. C’è bisogno di un dialogo egemonico con tutte le istanze più avanzate dell’attuale panorama politico, di agitare ogni contraddizione. Perché non tutto il voto che si riversa sulla Lega è di un popolo tendenzialmente fascista, ma spesso la nuova destra si limita a fornire risposte sbagliate a domande giuste. Perché spinte autenticamente popolari si accompagnano nel PD ad un radicamento territoriale declinante ma ancora invidiabile. Perché la tradizione del movimento operaio novecentesco in tutte le sue varie declinazioni è ancora viva e fruttifera. E perché c’è bisogno di innovazione politica e organizzativa e generazionale. 

Da un punto di vista più immediato, il panorama attuale pare aver trovato un equilibrio (che è facile pronosticare instabile) nell’alleanza PD-sinistra-M5S al governo, avversata dalla destra. Il campo da scegliere in questa contingenza non è quello del moralismo o del risentimento, ma quello più aperto a suscitare contraddizioni utili a cavare il meglio dalla situazione data. 

Dove andiamo?

“Che tu possa vivere tempi interessanti”, recita un’antica maledizione cinese. Viviamo tempi interessanti. Il campo della politica non è già arato in solidi solchi, al cui interno inserirsi badando semmai di tanto in tanto a correggere la rotta. La nostra metafora è quella del deserto, dove del resto il patto del Politico fu stipulato per la prima volta – in exitu Israel de Aegypto . Compito difficile e allo stesso tempo entusiasmante, quello di essere costretti a inventarci nuovi paradigmi. Questi devono poggiare su tre piedi:

  1. Una classe dirigente rinnovata e alle altezze della sfida. L’oligarchia può contare su solide agenzie esterne di formazione delle classi dirigenti, imprese, banche, grandi gruppi finanziari. Chi all’oligarchia si oppone non ha speranze almeno nel breve periodo, in mancanza di una controegemonia almeno stabilizzata, di attingere lì. Dobbiamo attrezzarci da soli.
  2. Un programma di netta opposizione alla nuova destra e di piena discontinuità con le sinistre liberal dell’ultimo ventennio, a partire dalla critica dell’europeismo reale, ma senza feticci. Una giusta analisi è la molla fondamentale dell’azione politica, ma impiccarsi alla giustezza dell’analisi conduce all’inazione. Troppe volte la sinistra ha preferito avere ragione piuttosto che vincere. La vittoria, specialmente in condizioni di forza penalizzanti, ha come base principale la selezione rigorosa della battaglie da dare e di quelle da evitare.
  3. L’utilizzo di nuovi mezzi per l’azione politica, a partire dalle piattaforme informatiche e da un sapiente utilizzo dei media tradizionali; di linguaggi nuovi, adeguati ai livelli reali di politicizzazione; di maggiore e più attiva partecipazione femminile alla politica; e di facce nuove, in grado di incarnare la necessaria rottura anche fisicamente.

Viviamo tempi interessanti. Il compito è quello di trasformare questa antica maledizione in una nuova opportunità.

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