Teoria

L’automazione è un falso problema

21 Dicembre 2020

Negli ultimi anni si è parlato molto di automazione e trasformazione del lavoro. Alcuni autori tra cui accelerazionisti come Nick Srnicek e teorici del post-capitalismo come Paul Mason hanno sostenuto che l’automazione è all’origine della perdita di posti di lavoro che abbiamo sofferto negli ultimi anni. Ma secondo questi autori questa nuova ondata di automazione prefigura anche la possibilità di un superamento del capitalismo e una società post-lavoro, a cui arrivare attraverso strumenti come il reddito di base, per garantire a tutti le risorse necessarie per vivere in un contesto in cui le imprese non hanno più bisogno del lavoro. A questi teorici di sinistra si sono aggiunti negli ultimi anni anche politici liberal come Andrew Yang candidato alle primarie del Partito Democratico e personalità della Silicon Valley come Mark Zuckerberg secondo cui il reddito di base è l’unico modo per garantire che l’innovazione tecnologica non si trasformi in impoverimento di massa. Il consenso sulla necessità di un nuovo patto post-automazione sembra sempre più ampio. Ma se fosse proprio il modo in cui parliamo di automazione e lavoro la radice del problema?

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Il nuovo libro di Aaron Benanav ricercatore all’università Humboldt di Berlino Automation and the Future of Work, prende di mira i teorici accelerazionisti e quella che lui chiama “teoria dell’automazione”. Secondo Benanav il problema non è la distruzione tecnologica di posti di lavoro ma la condizione stagnante dell’economia e la crisi di domanda dovuta a un capitalismo in crisi, incapace di trovare nuovi spazi di investimento produttivi capaci di creare posti di lavoro. Di fatto sempre nella storia il progresso tecnologico ha distrutto posti di lavoro. Oltre il 50% delle mansioni che esistevano negli anni ’50 non esistono più. Ma al contempo il capitalismo era capace di creare nuovi posti di lavoro attraverso investimenti produttivi – in nuovi impianti, macchine, infrastruttura, servizi collegati – che andavano ad assorbire i posti di lavoro eliminati dalle innovazioni tecnologiche. Il problema è che questo motore di crescita e creazione di posti di lavoro si è inceppato, non che l’automazione elimini posti di lavoro.

Benanav mostra come la tesi secondo cui l’automazione sta creando una crisi occupazionale è sbagliata da un punto di vista economico. Di fatto la crescita della produttività, l’indicatore economico che registra gli effetti del cambiamento tecnologico sulla capacità di produrre di ciascun lavoratore, è calata negli ultimi anni tanto più dalla crisi del 2008. Contrariamente all’immagine popolare di un sistema economico attraversato da repentini cambiamenti tecnologici siamo in una situazione di relativa stagnazione tecnologica. Il problema della nostra economia è lo stallo della domanda dovuto al declino degli investimenti produttivi privati. A causa della diminuzione del tasso medio di profitto, la cui caduta tendenziale era stata predetta da Karl Marx, enormi masse di capitale in eccesso non trovano più proficui spazi di investimento. Il mercato globale è saturato e il capitalismo soffre di una classica crisi di sovracapacità.

Ciò che vediamo è una tendenza al progressivo disinvestimento, con società che utilizzano liquidità inattiva per riacquistare le proprie azioni o pagare dividendi, e tassi di interesse a lungo termine in calo, poiché l’offerta di fondi da investire supera di gran lunga la domanda

Il contesto di pesante stagnazione, divenuto più evidente dopo la crisi dei mutui sub-prime del 2007-08 e della globalizzazione economica è la ragione principale che ha portato alla deindustrializzazione di molti paesi. “La deindustrializzazione non era solo una questione di progresso tecnologico, ma anche di ridondanza globale delle capacità produttive e tecnologiche. In mercati internazionali più affollati, i rapidi tassi di espansione industriale sono diventati più difficili da raggiungere “. In questo contesto “ciò che vediamo è un progressivo disinvestimento, con società che utilizzano liquidità inattiva per riacquistare le proprie azioni o pagare dividendi, e tassi di interesse a lungo termine in calo, poiché l’offerta di fondi da investire supera di gran lunga la domanda”.

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Questa situazione è dovuta in buona parte al fallimento del mito della post-industrializzazione e della società della conoscenza. La società post-industriale non ha creato nuovi motori di crescita. Gli aumenti di produttività che si sono registrati nelle economie mondiali sono rimasti quelli del settore manifatturiero, e non sono stati necessariamente dovuti a robotizzazione ma a aumento della scala della produzione. Ragion per cui molti paesi stanno capendo che il manifatturiero non è da considerare come un settore anacronistico come a lungo ritenuto dai politici della Terza Via e dai neoliberali. Come sostenuto dall’economista Baumol del resto nel settore dei servizi gli aumenti di produttività sono più difficili da ottenere. Non è così facile automatizzare un cameriere come si sostituisce un operaio con un robot. In alcuni paesi come l’Italia dopo la crisi del 2008 in alcuni anni la produttività dei servizi è addirittura calata. Una società dei servizi rischia così di essere una società stagnante con salari bassi e il rischio perenne che i consumatori girino le spalle e usino l’autoservizio (da esempio cucinare a casa piuttosto che mangiare al ristorante). 

In questa situazione di stagnazione il capitalismo fatica a trovare investimenti redditizi che andrebbero normalmente in impianti, infrastrutture, nuove macchine e tecnologie. Come conseguenza il capitale in eccesso va invece a alimentare la bolla speculativa e immobiliari. Il reddito di base spesso considerato come una soluzione al problema rischia di essere un modo per normalizzare la situazione, e se si assesta a un livello basso (così come vorrebbero i suoi sostenitori presso la classe capitalista) potrebbe immiserire ulteriormente i lavoratori. Ma secondo Benanav neanche la cura proposta dei post-keynesiani e sostenitori della MMT (Modern Monetary Theory) può essere una soluzione a questa cronica mancanza di investimenti. Non si cura il male del capitalismo con soluzioni monetarie e o fiscali. Perché il male di cui soffre il tardo capitalismo è fondamentalmente di carattere industriale. Consiste nell’incapacità di creare nuovi prodotti e servizi rivoluzionari che possano incrementare i margini di profitto e diventare nuovamente attrattivi come spazio di investimento. Ragion per cui il Quantitative Easing messo in moto dopo la crisi del 2008 è finito a alimentare le fiches del casino finanziario globale invece che andare in investimenti produttivi.

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Di fatto secondo Benanav politiche keynesiane, come spesa in deficit durante la fase di recessione sono stati utilizzati a partire dagli anni ’70 ma non sono riuscite a rimettere in moto il capitale né a creare un’economia pubblica capace di sopperire in maniera sostenuta al declino degli investimenti privati. Per questa ragione dopo ogni recessione la ripresa ha visto un recupero sempre più limitato di posti di lavoro. Anche in una situazione co tassi di interesse zero, se il mercato è saturo il capitale finisce per riversarsi nella speculazione finanziaria e immobiliare. La domanda che rimane aperta è se questa situazione di stagnazione sia passeggera, semplicemente il momento più basso di una lunga onda come quelle descritte da Kondratieff o se si tratti invece di una condizione di lungo periodo come sostenuto da stagnazionisti come l’economista americano Robert J. Gordon che che considera il declino della crescita come riflesso dell’esaurimento della spinta propulsiva della modernità. È evidente che nuove tecnologie come la fusione nucleare, potrebbero un giorno sbloccare la situazione e portare a nuovi spettacolari aumenti di produttività. Ma per il momento ci troviamo in una sorta di punto morto dell’evoluzione del capitalismo.

La parte analitica del libro è molto preziosa perché ribalta versioni tecno-utopiste di un comunismo digitale ormai alle porte come sostenuto dagli accelerazionisti e mostra come siamo in realtà di fronte a problemi che riguardano il capitalismo nel suo complesso. Tuttavia la parte prognostica è più deludente. Si sostiene giustamente che è necessario ritornare a pensare alla necessità di controllo dei mezzi di produzione e non pensare che il reddito di base sia una soluzione, di fatto porterebbe solo a stabilizzare la stagnazione. Ma l’autore non offre una soluzione convincente. Non si parla di progetti statali né di politica industriale, né di una possibilità via di uscita offerta dal Green New Deal e dalla transizione verde. Insomma manca una discussione convincente dell’alternativa rispetto a un modello neoliberista i cui limiti sono stati dimostrati ampiamente dall’emergenza del coronavirus.

La parte finale del libro è il classico progetto a tavolino di una  società utopica post-scarsità in cui i cittadini potranno trovare forme alternative per produrre e consumare fuori dalla logica di mercato. Nonostante questi limiti è un libro che vale veramente la pena leggere, perché perché sfata molti miti rispetto alla realtà in cui viviamo che sono stati ampiamente adottati come verità assolute fino a influenzare il discorso politico. Basti pensare alle predizioni del sociologo del lavoro De Masi adottate entusiasticamente da molte figure di punta del Movimento 5 Stelle. In realtà come svela Benanav l’automazione non è il problema. Il problema è la condizione stagnante di un tardo capitalismo che non sa più dove investire.

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