Cultura | Teoria

L’Europa al bivio dell’epidemia

31 Marzo 2020

Sark è una remota isola dell’arcipelago di Guernsey, nel Canale della Manica. Fra le altre cose è famosa per il buio fitto che governa le sue notti (sull’isola non c’è alcun impianto di illuminazione elettrica pubblica), per il fatto che le auto non vi possono circolare e per essere una sorta di paradiso fiscale. Si tratta di un’isola estremamente piccola (5,45 km) e poco abitata (circa 600 ab.), un posto ideale per chi vuole stare lontano da vicini troppo rumorosi. A renderla fino a poco fa una vera chicca per nerd politici e appassionati di storia era il fatto che sull’isola fosse in vigore un sistema di governo feudale. Il signore dell’isola, oggi Christopher Beaumont, infatti era vincolato da un giuramento di fedeltà direttamente con la regina, alla quale doveva una tassa annuale di una sterlina e settantanove pence, aveva dei privilegi anacronistici come l’esclusivo diritto di possedere cani sterili, o quello di appropriarsi di qualsiasi cosa emersa dalla bassa marea, e l’obbligo di difendere il territorio, insieme ai suoi 40 tenutari, in caso di attacco (ipotesi, di questi tempi, abbastanza inverosimile). Era un equilibrio istituzionale tramandato dal 1565, anno in cui Helier de Carteret, insieme ai suoi 40 uomini, aveva occupato l’isola disabitata ricevendone il titolo di seigneur con l’impegno di difenderla dai pirati e l’obbligo di pagare un ventesimo dell’obolo feudale (i quaranta tenutari a vario titolo ereditieri e la sterlina e settantanove di poco fa).

Questo stato di cose era rimasto pressoché immutato fino alla fine degli anni novanta, momento in cui sull’isola sono arrivati i fratelli miliardari David e Frederick Barclay, attirati dalla privacy e dai vantaggi fiscali, e con loro, grazie all’Unione Europea, è arrivata la “democrazia”.  Appena arrivati sull’isola i facoltosi fratelli hanno costruito per se stessi un eccentrico castello e poi hanno iniziato ad investire nelle strutture ricettive presenti in loco. Avevano grandi piani, avrebbero portato l’industria del turismo nel Canale. I fratelli Barclay naturalmente non avevano alcun bisogno di aumentare le proprie fonti di guadagno, ma immersi in un contesto nuovo si sono comportati come qualsiasi gruppo umano: hanno tentato di espandere la propria visione del mondo al contesto in cui erano immersi. È un aspetto fondamentale questo perché ci fa capire che la loro leva motivazionale più che economica era meramente ideologica: la volontà di affermare la propria visione sul territorio circostante, il loro obiettivo era la potenza, non l’economia. Naturalmente per attrezzare Sark al turismo industriale occorrevano miglioramenti non da poco: serviva un porto turistico, un’illuminazione pubblica, delle strade percorribili e degli svaghi costosi, il tutto finanziabile con la fiscalità generale, sarebbe bastato convincere la politica locale ad imboccare quella decisione. Gli abitanti di Sark però erano abituati da secoli di tranquillità e solitudine a fare di testa loro e non seguire con troppo entusiasmo le mutazioni del momento, quindi le argomentazioni e i capitali milionari messi in campo dai due eremiti non fecero breccia nel consiglio, tantomeno nel Segneur. Stupiti dal fatto che non bastasse dare lavoro ad un terzo della popolazione per influenzarne la visione e le scelte i Barclay impugnarono l’ingiusto, medievale e antidemocratico ordinamento dell’isola davanti alla Corte di Giustizia Europea che, con la consueta sensibilità alle richieste di responsabilità e democrazia dei miliardari, diede loro ragione. Finalmente la rivoluzione francese portava i propri esiti anche a Sark e nel 2008 si sarebbero tenute le prime elezioni a suffragio universale per eleggere il consiglio. Il consiglio sarebbe stato formato da 28 (non più 40) membri, 26 eletti più il signore e un siniscalco che rappresentasse una maggioranza affidabile. La legge elettorale era un proporzionale puro in cui l’elettore sceglieva uno per uno i suoi candidati preferiti fra la totalità dei circa 60 che si erano presentati (il 10% della popolazione). L’esito fu schiacciante, o bulgaro, come vuole la terminologia giornalistica: gli isolani vinsero col 93% e i Barclay dovettero abbandonare i loro progetti di cambiamento epocale. “This is democracy!” pare abbiano affermato i vincitori.  Subito dopo le elezioni, presumibilmente animati da un inscalfibile anelito democratico, i Barclay chiusero le proprie attività e licenziarono i dipendenti causando 140 disoccupati sui 600 cittadini totali. Vendetta? Certo che no! Semplicemente, come da tradizione dell’Unione Europea, il mercato stava insegnando a quei bifolchi isolani come votare.

Non sappiamo precisamente come sia continuata la storia, ma le elezioni del 2010 confermarono il verdetto precedente. Quello che è certo è che l’Unione Europea non mosse un dito per arginare la crisi di disoccupazione, del resto la piena occupazione non è mai stata tra i suoi obiettivi, e non potrebbe essere diversamente dal momento che il suo approccio al lavoro è liberale, tutt’altro che lavorista, basato su principi esclusivamente economicisti come il NAIRU.  In ogni caso pare che dopo la pressione mediatica dell’opinione pubblica nel mondo anglosassone i Barclay abbiano mitigato le proprie posizioni e fatto tornare a lavoro la maggior parte della gente. Molto probabilmente, se le riforme sono state fatte bene, la nuova democrazia parlamentare sarà in grado negli anni di assorbire le posizioni più distanti fra loro e assimilare i punti di vista discordanti in una nuova visione prospettica, che tenga conto della tradizione, ma sia proiettata nella contemporaneità, e condizioni le scelte della maggioranza di volta in volta. È questo che fa una democrazia parlamentare.

La parabola della piccola isola di Sark ci illustra come una nazione degna di tale nome superi una crisi dalle dimensioni spropositate. Il demos si presenta come la totalità dei cittadini che condividono i valori dell’ethos comune mirabilmente esplicitati nel mito fondativo (la storia dei primi occupanti sostanzialmente liberi di fare quel che volevano a patto di proteggere i confini dell’isola). Solo la determinazione a preservare questi valori fa si che si affronti il passaggio delicatissimo da signoria feudale a democrazia (ma per ora sarebbe più corretto dire “signoria parlamentare”)  mantenendo intatte le peculiarità della comunità nazionale. È principalmente una manifestazione di potenza, la determinazione di affermare se stessi anche contro qualsiasi interesse economico e affrontando altissimi pericoli sociali.

Ancora una volta l’Ue ne esce a pezzi, facendo la figura di un centro regolatore: un istituzione a cui conformarsi, nel migliore dei casi; una tecnocrazia al servizio dei capitali, per i suoi detrattori. Del resto è la modalità con cui siamo abituati a vederla manifestarsi, la stessa che la fa trasparire per quello che è: una federazione costruita principalmente in chiave geopolitica e finanziaria aliena a qualsiasi meccanismo di governo inclusivo e democratico e contraria allo stato costituzionale.

L’Unione Europea nasce nel secondo dopoguerra, anche su spinta statunitense, per contrastare l’avanzamento delle politiche comuniste al di qua della cortina di ferro, tra progetti falliti e ulteriori allargamenti dei settori economici in comune riceve nuovo e definitivo slancio dalla caduta del muro di Berlino e dall’apertura al mercato dei paesi dell’ex blocco sovietico. In quegli anni, sulla base dell’ossatura impostata nei decenni precedenti, prendono avvio con gli accordi di Maastricht le fasi più incalzanti dell’integrazione e l’unione assume la fisionomia istituzionale con cui la conosciamo oggi. I fanatici del sogno tradito, che fanno riferimento al manifesto di Ventotene come testo fondativo, hanno poco da rammaricarsi perché dal trattato di Roma in poi, fatta eccezione per posizioni isolate e dichiarazioni propagandistiche, il progetto unionista non ha mai dato segno di voler procedere verso una decisa unificazione sociale e politica ma si è sempre orientato verso il modello di federazione mercantilistica e finanziaria che per assurdo si trova nei disegni più ambiziosi proprio della Germania degli anni trenta. Del resto, a differenza della piccola Sark e di tutte le Nazioni che la compongono, l’unione non si è mai data un mito fondativo che facesse da narrazione portante per l’ethos del proprio popolo, niente pirati o rivoluzionari giacobini e risorgimentali, l’unico collante ideologico apertamente esplicito dell’Ue è sempre stata la voglia di benessere, il desiderio di lasciarsi alle spalle il trauma della guerra e di creare un ambiente favorevole al prosperare delle attività economiche e finanziarie, nella convinzione (o nella narrazione) che la prosperità e il commercio libero potessero da soli assopire le conflittualità, etniche e di classe, che avevano caratterizzato la prima metà del novecento.

Da questa impostazione derivano l’esaltazione della tecnocrazia come garanzia di imparzialità politica e la determinazione di cancellare lo scontro geopolitico senza elaborare il lutto postbellico, ma semplicemente rimuovendolo. Ne è uscita fuori un’unione che non pretende di affermare se stessa nel mondo in base ad una volontà di potenza, volontà di determinare gli esiti della storia partendo dalle proprie caratteristiche costitutive, un’unione per nulla disposta ad alcun sacrificio in termini di perdita di  benessere e competitività economica, estranea a qualsiasi concetto di assimilazione interna. Ma i popoli e gli ideali si affermano nella storia al costo di grandi sacrifici, lo sanno bene gli abitanti di Sark disposti a perdere il lavoro pur di mantenere le loro prerogative, e lo sanno bene i veri vincitori della seconda guerra mondiale che non a caso non fanno (più) parte dell’unione. Il bisogno di rimozione è evidente in alcune goffe delibere del parlamento sulle ideologie novecentesche, mentre gli esiti di un’approccio tecnocratico alla politica traspaiono chiaramente dalle dinamiche legislative che attribuiscono molto più potere agli organi non elettivi (commissione e consiglio) che al parlamento, il quale di conseguenza risulta inibito a catalizzare il confronto su un piano meramente politico. Il caso, con tutta l’ironia che gli si confà, ha deciso che a traghettare la commissione nel momento più delicato della sua esistenza, nel momento che più mette a nudo la natura ordoliberale di tutto il progetto e l’inalienabilità del conflitto politico, sia proprio una donna che ha la particolarità storiografica di portare lo stesso cognome citato da Karl Marx  nel raccontare le prime sommosse di classe. A volte ritornano, direbbe qualcuno, e come ha detto il primo ministro Giuseppe Conte si è palesato come mai prima d’ora lo scontro aperto tra i paesi membri: “l’Unione Europea ha un appuntamento  con la storia, e la storia non aspetta, bisogna esserne all’altezza”. La commissione, naufragato l’asse franco-tedesco, che pure aveva orchestrato parecchi colpi bassi al concetto unitario, è posta di fronte alla scelta non procrastinabile su come affrontare l’emergenza coronavirus.

Si tratta di un momento epocale in cui l’unione può decidere come definire il proprio futuro. Fino ad ora abbiamo conosciuto l’Unione ordoliberale dei paesi forti, l’unione della Troika che imponeva memorandum a fronte di aiuti finanziari ad un paese membro, lo sanno bene in Grecia  dove conoscono anche gli esiti nefasti di queste politiche e la loro sostanziale inapplicabilità. Anche le prime reazioni alla diffusione del virus, quando si sperava che fosse un problema solo italiano, avevano visto ricomparire l’ipocrita arma dello spread con le solite alzate di spalle da parte di Bruxelles, ma con l’estendersi del contagio gli scenari sono cambiati in maniera repentina e adesso assistiamo all’apertura di nuovi orizzonti. Per la prima volta la Francia fa fronte comune con i paesi del sud e chiede di socializzare il debito necessario per far fronte all’emergenza. A dar man forte all’insolita compagine arriva la lettera di Mario Draghi sulle pagine del Financial Times, un endorsement di peso che porta credibilità alla proposta mediterranea anche fra i membri più influenti della tecnocrazia europea. Si badi bene che siamo ancora pienamente immersi in una concezione di debito e di economia pienamente ordoliberale con lo stato (l’Ue) che si indebita per finanziare le imprese (e quindi il mercato) attraverso le banche, tuttavia sarebbe la prima volta che l’emittente è direttamente l’unione e non uno stato membro, vorrebbe dire assumersi il rischio del proprio debito (o colpa se vogliamo assecondare l’etica protestante tanto in voga a Bruxelles) e della relativa condotta in maniera finalmente unitaria. L’alternativa sarebbe insistere con la pretesa di applicare gli aiuti del MES, rischiando di far saltare tutta l’unione.

Ma quale nazione correrebbe questo rischio? Non certo la piccola Sark che si è autoinflitta una crisi economica per mantenere le proprie peculiarità, ma nemmeno l’Olanda e i suoi sodali, che si tengono ben stretta l’Unione Europea di Maastricht e Lisbona, perfettamente consapevoli che un ulteriore passo verso la centralizzazione farebbe perdere alle rispettive economie, così organiche alle logiche della BCE, tutto il loro potere. O l’Ue fa l’Europa o muore, per ripetere una celebre profezia unitaria,  perché il coronavirus non palesa soltanto l’inefficienza di questo modello di governance, ma tramite le performance deludenti dei vari sistemi sanitari, mette a nudo la precarietà sociale e la pericolosità del mantra neoliberista alla base di tutte le scelte di dismissione del servizio pubblico. E a chi si rivolgeranno i cittadini quando avranno bisogno di nuovi ospedali, infrastrutture solide, un’istruzione pubblica o un sistema di edilizia popolare? Perché se i mai esistiti “settant’anni di pace” non sono un mito fondativo la resistenza al nazifascismo potrebbe esserlo, i valori di un popolo potrebbero essere quelli delle costituzioni postbelliche: l’abnegazione nel perseguimento di una mobilità sociale vera, l’alfabetizzazione di massa, l’eliminazione della povertà, il lavoro come diritto di cittadinanza. Fino ad ora, complice un sistema mediatico quasi esclusivamente schierato dalla parte dei grandi capitali, l’avversione ai meccanismi dell’Unione Europea è sempre stata etichettata come antieuropeismo sovranista (e quindi nazionalista), ma esiste lo spazio ideologico e l’esigenza di rappresentanza di un antiunionismo (termine che a me pare più corretto) repubblicano, democratico, lavorista, che metta al centro dell’idea di Europa i valori delle costituzioni postbelliche, sono queste le caratteristiche più plausibili di un possibile ethos europeo.

Ursula von del Leyen e la commissione da lei presieduta hanno l’onere di scrivere la prossima pagina della storia dell’integrazione europea o di decretare il fallimento del progetto dell’unione; è qualcosa che non hanno cercato ma che gli è piombata addosso con le vesti del primo vero problema comune esogeno che ci sia capitato. Se dovessero propendere per la seconda ipotesi, se dovessero affermare che in questo quadro gli interessi nazionali dei paesi del nord, e quelli finanziari dei grandi capitali, sono più importanti dell’interesse collettivo, conservate qualche banconota di Euro: sarà il ricordo più eloquente dell’ingordigia, dell’egoismo e dell’inefficienza dell’idea ordoliberale.

Ah… semmai tornassimo a viaggiare fatevi un giro a Sark, c’è un disperato bisogno di nazione.              

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