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Soft and dirty. Il diritto nella UE

Tra le diverse letture dei motivi per cui è stata rapidamente esclusa la strada delle elezioni dopo la crisi che ha portato alla nascita del governo “giallo-blu (stellato)” è circolata anche quella del Prof. Mario Esposito, ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Lecce, nella quale si sottolineava come, con la riforma degli articoli 81 e 97, il riferimento alla UE fosse ormai divenuto parte integrante del nostro «circuito di indirizzo politico»1. Al di là delle valutazioni sulla contingenza della crisi e sulle diverse strategie messe in atto dalle forze politiche il tratto più interessante dell’intervista sta nel sottolineare come le classi dirigenti italiane abbiano «sottovalutato gli effetti di una integrazione europea attuata dal legislatore ordinario, quindi con maggioranze semplici, senza preoccuparsi di governare tali scelte a livello costituzionale», fino a quella che il giurista definisce una trasformazione strutturale nella forma di governo, forse nella stessa forma-Stato. Oltre ad avvertirci sulle ingenuità di chi ritiene che l’attuale esecutivo rappresenti una “blindatura della Costituzione” per il solo fatto di avere riportato al centro le dinamiche parlamentari, evitando una maggioranza di destra, l’intervista apre ad una serie di questioni più generali che concernono i meccanismi attraverso i quali la governance europea riplasma gli ordinamenti nazionali, disinnescando il loro riferimento ultimo a principi costituzionali, ben al di là della lettera dei Trattati.

Una rete costituente?

Nel suo Diritto proteiforme e conflitto sul diritto Alessandra Algostino offre un quadro teorico e storico complessivo in cui inserire queste trasformazioni2. Poggiandosi, tra le altre cose, al “costituzionalismo sociale” di Teubner, l’autrice descrive il panorama attuale come uno scontro, sul diritto e nel diritto, tra due orizzonti in senso lato “costituzionali”, quello del costituzionalismo (con la sua tensione alla limitazione del potere, all’integrazione delle domande politiche, alla promozione dell’emancipazione) e quello della global economic governance, un mélange di soggetti pubblici e privati, relazionati da contratti, consuetudini, sentenze di giurisdizioni, lodi arbitrali, soft law e frammenti di diritto statale, piegati alle esigenze del finanzcapitalismo. Ad affacciarsi è una serie di «antisovrani, o meglio, nuovi sovrani», sempre meno responsivi alla sovranità popolare: corporations, organizzazioni economiche internazionali, agenzie di rating internazionali e anche Stati, di fatto commissariati e ridotti a «recettori di norme prodotte altrove»3. All’immagine della piramide tra le diverse fonti del diritto si sostituisce, allora, quella di una rete, plastica, malleabile e sostanzialmente de-territorializzata, in grado di registrare e assumere come produttori di diritto i rapporti di forza emergenti dal mercato. Nel caso della UE l’insieme di raccomandazioni, pareri, libri bianchi e verdi, codici di condotta, comunicazioni, risoluzioni, conclusioni, lettere e accordi interistituzionali, va a comporre un variegato sistema di soft law che, grazie anche al ruolo assunto dalla Corte di Giustizia, tende non solo ad ampliare la governance europea su materie rispetto alle quali le istituzioni comunitarie non avrebbero competenza o potere vincolate, ma, sempre più spesso, a porsi come alternativo alle fonti formali esistenti o come programmatico per la creazione di nuovo diritto4. Avrebbe, dunque, certamente torto, almeno sul piano giuridico, chi volesse sostenere una “contraddizione semplice” tra stato nazionale e Unione Europea, come se il potere comunitario agisse, in definitiva, come una sorta di “invasore” senza rimodellare profondamente e con duttilità le condizioni interne del suo esercizio. Come abbiamo sostenuto in altra sede, però, la flessibilità di questo dispositivo non implica per nulla la sua “riformabilità”5. Piuttosto:

«Emerge chiaramente il nesso fra la soft law, con la sua “giuridicità destrutturata e multiforme”, e l’ordinamento – la governance– dell’“economia sociale di mercato fortemente competitiva”, alla quale si riferisce l’art 3, par 3, TUE (…). L’Unione Europea, cioè sta “elaborando un ‘mercato delle norme’ a misura della mondializzazione” delle multinazionali, “a detrimento delle istituzioni pubbliche»6

È anche grazie a questa trasformazione del diritto che la sovrastuttura parastatale e multilivello della UE può ri-teritorializzare parzialmente, in funzione adattiva, la de-terittorializzazione della global economy, in una sorta di “globalizzazione regionale” e di continuo “processo costituente” neoliberale, che, in mancanza di una Costituzione europea (strada rivelatasi politicamente sbarrata), opera sulla disattivazione degli aspetti emancipatori delle costituzioni nazionali. 

Nel dubbio…difendi il mercato

L’effetto concreto di quanto fin qui detto è un sostanziale prevalere di fatto dei “diritti proprietari” su quelli “sociali”7 che coinvolge piano sovranazionale, nazionale e locale.  La funzionalizzazione sociale della proprietà che la costituzione economica italiana sancisce agli artt. 41 e 42, stabilendo così una netta supremazia della finalità sociale rispetto alle mere libertà economiche, non è presente nell’impianto dei trattati europei, che, al contrario, come hanno avuto modo di sottolineare Vladimiro Giacché, Alessandro Somma e Luciano Barra Caracciolo, sono incentrati sulla tutela del principio concorrenziale di mercato, quale unico strumento per la crescita. Persino un convinto europeista come Franco Gallo riscontra chiaramente che già nella Carta di Nizza si è trattato di dare «un criterio assiologico alla tutela della proprietà, che comporta la preferenza per un tipo di proprietà – quella che circola»8. Anche in questo l’attività giurisprudenziale della Corte ha contribuito a sbilanciare la “simmetria apparente”9 tra diritti economici e diritti sociali in direzione della tutela delle libertà fondamentali di circolazione dei prodotti, dei servizi, dei capitali e delle persone – strumento per la realizzazione del Mercato Unico come spazio privo di ostacoli – rispetto agli obiettivi di protezione sociale (rimandati, in assenza di una compiuta unità politica federale, alla sovranità nazionale). In questo senso ha ragione chi insiste sulla non estraneità dei poteri nazionali alle politiche neoliberali europee, a patto, però, di comprendere che non si tratta di un mero alibi per attaccare lavoro e diritti, ma di una coimplicazione tra i due livelli che, al tempo stesso, de-sovranizza e rifunzionalizza quello dello Stato nazionale. In questo senso le sentenze Viking e Laval hanno fatto scuola: di fronte ad una tutela del lavoratore in termini sostanziali si è preferito privilegiare il diritto del lavoratore di muoversi e avere la libertà di potersi stabilire dove vuole. Ma il carattere cosmetico dei diritti sociali appare evidente anche nel cosiddetto “Pilastro sociale”10, che rimane più che altro una dichiarazione di principio visto che gli strumenti per dotare i Paesi di risorse anticicliche sono vietati proprio dalla nuova governance economica dell’UE e che anche l’ipotesi di un bilancio comune è espressamente esclusa, per lo meno su basi perequative.

Il potere pubblico, un ostaggio ineliminabile

Il margine di azione dello Stato appare, dunque, molto ridotto e la sovranità è sia messa in crisi dalla perdita di leve che, soprattutto dopo Maastricht11, sono demandate a livello comunitario, sia aggirata dal basso, da regionalismi, smart o global cities, networks di interessi o di organizzazioni non governative che tendono a interfacciarsi direttamente tra loro e con il piano sovranazionale. Oltre al decentramento, considerato da un autore come Parag Khanna «la più potente forza politica della nostra era»12, un altro termine chiave per comprendere questa deriva è il concetto di “sussidiarietà”, che assume un significato particolare nel diritto post-moderno, lontano da quello, di matrice cattolica e liberale ma comunque parte di un quadro caratterizzato da pubblici poteri con finalità sociali, presente nella Costituzione repubblicana. Nell’Europa post-Maastricht e soprattutto dopo la crisi abbiamo assistito, infatti, ad un veloce e significativo aumento delle cessioni di competenze sovrane verso Bruxelles, questo da un lato ha tolto spazio anche all’autonomismo delle regioni, ma dall’altro ha limitato la mediazione della legislazione dello Stato, essendo gli enti sub-statali chiamati in prima persona a dare applicazione diretta a talune disposizioni comunitarie. Il caso evidente riguarda i capitoli di spesa in capo ai progetti che vengono approvati nell’ambito dei Fondi strutturali, gestiti direttamente dalle Regioni e la cui rendicontazione è controllata, spesso con scarsi successi, dalla Commissione europea. Anche i progetti di autonomia differenziata, tanto più quando considerati “moderati” come quello proposto dall’Emilia Romagna, si inquadrano, oltre che dell’ormai noto processo di “secessione dei ricchi”, in questa logica per cui un sempre maggior numero di gangli di intercettazione e di smistamento di risorse viene sottratto all’indirizzo politico dei governi.

In questo quadro, come ha dimostrato uno studio di Legnini e Piccione, il dibattito sullo “Stato minimo” vs “intervento pubblico” appare in qualche modo superato dalla creazione di un ordinamento giuridico osmotico (nazionale/sovranazionale) capace di ridefinire l’intervento dello Stato svuotandone di fatto il suo contenuto universalistico, etico e comunitario, a partire dal venir meno della legislazione fondata sulla centralità parlamentare13. Questo sbilanciamento del potere statale dal lato della regolazione di settori tecnici specifici, piuttosto che da quello della legislazione incentrata sul Parlamento è l’aspetto che più ci interessa per dimostrare la natura multilevel di una super struttura che non si pone contro lo Stato, ma lo riarticola. Spazi di de-regolamentazione e di ingiunzione continua alla disintermediazione a favore dei soggetti privati, dei singoli a scapito dei corpi intermedi, convivono con una ipertrofica ri-regolamentazione che abbandona gradualmente l’impostazione “verticalista” – basata su un disciplinamento rigido della produzione e della circolazione di prodotti, servizi e dei fattori della produzione – per adottare un metodo regolativo più snello e orizzontale, capace di fissare obiettivi e standard, senza essere invasivo e lasciando ampio margine di flessibilità agli stati, sebbene questi non possano però uscire dal perimetro tracciato. Questo nuovo framework giuridico che disequilibra “legislazione”, “regolazione” e “giurisdizione” sbilancia il sistema verso un ordinamento che vede le politiche pubbliche e le indicazioni di politica economica sempre meno determinanti e in ogni caso subalterne ad un meccanismo che trova il proprio inveramento nel gioco depoliticizzato della legge della domanda e dell’offerta e nella conseguente riduzione del giuridico a “giurisdizione”, controllo e presidio della società di mercato. La verità del prezzo rimane, dunque, l’unico parametro a cui il “giuridico” deve far riferimento. Certamente la grammatica dei diritti rimane importante, ma sempre in modo subordinato, ancillare rispetto ad una verità economica coincidente con il mercato stesso14.

Conclusioni

Abbiamo cercato in queste brevi pagine di dar conto dell’ambivalenza di fondo della questione statuale e della sua dimensione giuridica, che non è un mero rivestimento tecnico procedurale, né un’espressione puramente sovrastrutturale, ma al contrario si situa, così come la sfera economica, nel suo proprio campo strategico, relazionale e ideologico. L’Unione europea è l’espressione plastica di questa statualità multilivello completamente riarticolata, che sostanzialmente fa a meno dell’unità politica. Nonostante i proclami e gli appelli dei federalisti e altereuropeisti essa non intende evolvere in una forma federale, poiché tale configurazione significherebbe in qualche modo fare i conti con la sovranità e con l’impossibilità della compresenza di altre autorità sovrane. La decisione è tale poiché è “una” ed esclude che ci sia una pluralità di decisori, possibilità ammessa nelle reti polifunzionali del diritto post-moderno solo nella misura in cui il meccanismo automatico della governance “non decide”, ma amministra e gestisce attraverso il sistema delle competenze. Rimettere al centro la costituzione come decisione, dunque un nuovo Nomos, significa ripristinare una dimensione di auctoritas oltre la mera potestas15.  Nell’ambito del diritto significa rivendicare la centralità della sua natura pubblica, astratta e generale, accompagnandola a un “farsi Stato” del popolo, che non veda nelle istituzioni semplicemente la proiezione di un’autoregolazione dal basso (i commons, per esempio), ma che, nell’assumere la dimensione nazionale come imprescindibile punto di partenza e non di arrivo, sia capace di creare istituzioni, sempre tenendo presente che esse non sono solo immaginate, ma debbono “stare”, debbono fornire una tenuta, una durata e un orientamento per il futuro. È probabilmente tempo che quanti hanno ancora a cuore l’idea di “sovranità popolare” costruiscano, al di là delle legittime appartenenze politiche e in dialogo con esse, uno spazio non solo di critica e di resistenza, ma di riflessione e di progettualità all’altezza di queste sfide.

1 Perché non si vota. Il giurista: decide l’Europa per noi, lo dice la Costituzione, “Il sussidiario.net; 2) ”, 23 agosto 2019: https://www.ilsussidiario.net/news/perche-non-si-vota-il-giurista-decide-leuropa-per-noi-lo-dice-la-costituzione/1918260/

2 A. Algostino, Diritto proteiforme e conflitto sul diritto. Studio sulla trasformazione delle fondi del diritto, Giachipelli, Torino 2018. L’attenzione su questo importante testo è stata già posta da Thomas Fazi in La UE e l’oligarchizzazione del diritto (2 maggio 2019): https://www.laboratorio-21.it/la-ue-e-loligarchizzazione-del-diritto/

3 Ivi, p. 100-102

4 Ivi, pp. 189-190. L’autrice rimanda, ad esempio, a due sentenze riguardanti un codice di condotta sulle irregolarità nell’ambito dei finanziamenti legati ai fondi strutturali (C-303/90) e le rettifiche finanziarie (C-443/97); cfr. ivi, p. 185-186. Sullo stesso tema, ma con diversi esempi, cfr, anche Cfr. A. Carrino, La Costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti. Mimesis, Milano p. 223.

5 Cfr. M. Baldassari, D. Melegari, S. Zai, L’Europa resiliente: plasticità e irriformabilità della governance europea, in “Il Ponte”, n.5-6 maggio 2017

6 Algostino, cit., p. 191

7 Cfr. F. Gallo, Il futuro non è un vicolo cieco. Lo Stato tra globalizzazione, decentramento ed economia digitale, Sellerio, 2019

8 Ivi, p. 45.

9 Seguendo il ragionamento di Philp Syrpis Gallo parla di “simmetria di principio”, ma di “asimmetria applicativa”. La sovranità condivisa lascia agli stati la responsabilità di rispondere alla domanda sociale, salvo poi togliere i mezzi di politica economica per realizzare riforme di matrice redistributiva e di stimolo alla domanda.

10 Si tratta del progetto della Commissione europea denominato “Pilastro europeo dei diritti sociali per un’occupazione ed una crescita più equa”.

11 Con la svolta del Trattato di Maastricht, cioè con il rilancio dell’integrazione che avrebbe portato alla moneta unica, il processo di neoliberalizzazione del sistema comunitario subisce un’evidente accelerazione. Non a caso Guarino parla dell’euro come di un “colpo di Stato” che ha tolto la possibilità ai Paesi membri di decidere della propria politica economica; cfr. G. Guarino, Cittadini europei e crisi dell’euro, Editoriale Scientifica, Napoli 2014 e AA.VV., Rottamare Maastricht, DeriveApprodi, Roma 2016

12 P. Khanna, Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, Fazi Editore, Roma 2016. p. 17. Per il politologo indiano le big cities, le catene di valore globale, le connessioni e non più gli stati-nazioni sono le nuove forme di potere che contraddistinguono la geopolitica di un mondo multipolare.

13 G. Legnini, D. Piccione, I poteri pubblici nell’età del disincanto. L’unità perduta tra legislazione, regolazione e giurisdizione, LUISS, Roma 2019

14 Di questo processo si possono portare diversi esempi: dalla crescente importanza assunta dalla tempestività e dalla calcolabilità delle decisioni giudiziarie, alle modalità di arbitraggio, svincolate dagli Stati interessati, nei trattati come il TTIP o il CETA, a quella che Legnini e Piccione indicano come una crisi del comando legislativo e della sua generalità in favore di forme di regolazione più schiacciate su singoli aspetti tecnici (si pensi al ricorso alla decretazione d’urgenza, alle modalità di esercizio della delega legislativa o ai modi con cui si “saltano” gli emendamenti in sede parlamentare); cfr. Legnini e Piccioni, op. cit., p. 40.

15 G. Carrino, op. cit.

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