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Mélenchon, il “terzo incomodo”

11 Aprile 2017

Le elezioni più imprevedibili del 2017 si arricchiscono di una nuova sorpresa. Dopo aver visto (l’irresistibile?) ascesa dell’ex ministro dell’Economia Emmauel Macron ed il crollo dei Repubblicani di Fillon, la nuova sorpresa delle presidenziali francesi potrebbe avere il nome ed il volto di Jean-Luc Mélenchon. Gli ultimi sondaggi posizionano infatti il 65enne eurodeputato al terzo posto, a circa il 18% delle intenzioni di voto, davanti ai due candidati dei partiti tradizionali (socialisti e repubblicani) e dietro solo al liberale Macron e alla conservatrice post-fascista Le Pen. Un risultato che – se confermato – sarebbe già di per sé notevole. In primo luogo perché staccherebbe di circa 10 punti il candidato socialista, mai superato “a sinistra” fin dal lontano 1974. In secondo luogo perché in questo modo renderebbe ancora più chiara la divaricazione del fronte progressista francese, diviso fra una candidatura liberale alla Renzi (Macron), e un candidato che con Podemos condivide tanto la radicalità quanto la spietata critica alle oligarchie.

Ma chi è Jean-Luc Mélenchon? Nato a Tangeri nel 1951 da due impiegati statali pieds-noirs, esordisce nel movimento studentesco del ’68 su posizioni trotskiste. Laureatosi in filosofia, si avvicina progressivamente al “nuovo” Partito Socialista, creato nel 1971 da Francois Mitterand. Parallelamente inizia il suo impegno nel mondo del giornalismo, che continua – in diverse forme – fino a tutti gli anni ’90. Nel 1986 – da dirigente locale e affiliato alla corrente mitterandista – viene eletto per il Ps in Senato. In questo periodo inizia anche la sua affiliazione al Grande Oriente di Francia, sulla scia della sua tradizione familiare. Questa appartenenza segna anche il suo peculiare posizionamento politico. Non marxista, Mélenchon si colloca agevolmente in quella tradizione laica, repubblicana e giacobina che tanto peso ha avuto nella sinistra francese.

Alla fine degli anni ’80 risale anche il suo spostamento verso posizioni critiche nei confronti della svolta liberale della presidenza Mitterand (e di tutto il partito). Nel decennio successivo, la sinistra socialista da lui guidata si mantiene attorno al 10% del consenso interno al Ps, accentuando con il tempo la critica all’unificazione europea. La sua lunga marcia nelle istituzioni raggiunge il picco nel 2000, quando diventa Ministro all’Insegnamento Professionale. Durante tutta la sua carriera politica, Mélenchon continua a sedere negli organi rappresentativi dell’Essonne, un piccolo dipartimento della regione parigina. In questo, il suo percorso politico è largamente in linea con quello dei molti altri “notabili” che costituiscono la vera spina dorsale del Partito Socialista: funzionari di partito con un forte radicamento locale e con incarichi politici nazionali. In prima linea per il “no” al referendum sulla Costituzione Europea del 2005, il suo rapporto con la maggioranza neoliberale del Ps si fa sempre più teso. Dopo la pesante sconfitta della sinistra socialista al congresso del 2008, Mélenchon decide di abbandonare il Ps per fondare il Parti de Gauche (Partito della sinistra), sul modello della Die Linke tedesca. Il nuovo partito non riesce mai a radicarsi elettoralmente ed organizzativamente, ma contribuisce al rafforzamento del Front de Gauche (un cartello di diverse forze di sinistra), che nel 2009 lo elegge in Europarlamento.

Nel 2011 è il candidato del Front de Gauche alle presidenziali, dove si qualifica quarto con poco più dell’11% dei voti. Il risultato – arrivato dopo una campagna elettorale caratterizzata da comizi oceanici – è incoraggiante, ma non rappresenta un boom rispetto ai risultati della sinistra radicale francese, che alle presidenziali esprime tradizionalmente un consenso complessivo di poco meno del 10% dei voti. Negli anni successivi, Mélenchon rimane il leader “informale” del Front de Gauche, caratterizzandosi con posizioni anti-sistema profondamente critiche nei confronti delle classi dirigenti francesi. In questo solco si colloca la sua battente richiesta per una “Sesta Repubblica“, che superi tanto il presidenzialismo quanto l’impianto liberale condiviso sia dal centro-sinistra che dal centro-destra francesi.

Il lungo percorso di Mélenchon nella politica francese – iniziato quasi cinquant’anni fa – arriva quindi alle presidenziali di quest’anno. Pur mal digerito dalla dirigenza del Partito Comunista Francese – azionista di maggioranza del Front de Gauche -, l’eurodeputato riesce ad imporre nuovamente la sua candidatura alle presidenziali, su un programma profondamente ispirato dall’esperienza di Podemos. Per questo lancia un movimento, La France insoumise (“La Francia ribelle”) che rimarca esplicitamente la sua autonomia dai partiti della sinistra tradizionale e si basa su una piattaforma digitale deliberativa. Un movimento che ha saputo piano piano conquistarsi la ribalta nei mezzi di comunicazione tramite un sapiente uso dei social media, e che oggi dichiara ben 385 mila iscritti. Punto chiave del programma di France Insoumise è la convocazione di un’Assemblea Costituente che riformi in senso parlamentarista l’assetto politico francese. Fra le sue proposte emblematiche si situano poi l’abrogazione della Loi Travail (il Jobs Act d’oltralpe, approvato nel 2016 dal governo socialista) e la “riforma democratica” delle istituzioni europee (o, se non possibile, un’uscita ordinata degli Stati nazionali). Il sua programma strizza infine l’occhio agli ambientalisti dispersi dalla diaspora dei Verdi francesi con l’abolizione (a lungo termine) del nucleare e l’instaurazione di una “regola verde”: non consumare più di quello che la natura può produrre. Insomma, si tratta di un programma più di cambiamento istituzionale – contro i “privilegi della casta”, per  usare le sue parole – che di rottura economica.

Con tutte le sue particolarità, la proposta politica di Mélenchon sta sfondando al di fuori dei normali steccati della sinistra radicale. Per quanto i sondaggi siano in questo contesto particolarmente poco affidabili, delineano un trend di crescita notevole, considerato il naturale isolamento di un’area politica tradizionalmente con pochi militanti, pochi eletti e – drammaticamente – pochi soldi. Un populismo democratico che sta riuscendo ad attrarre – con modalità forse più simili all’esperienza statunitense di Sanders che a quella spagnola di Podemos – in particolar modo giovani alle prime esperienze politiche.

Come che vadano le elezioni, Mélenchon ha quindi già contribuito a riposizionare la sinistra radicale francese. Abbandonando la parola d’ordine della gauche per cercare di contendere a Marine Le Pen l’elettorato popolare abbandonato dai socialisti e dai repubblicani, il vecchio politico di professione dell’Essonne è così riuscito ad ottenere un primo risultato significativo, ridisegnando in maniera indelebile i contorni della sua area politica in senso populista. Se le urne confermeranno poi i dati dei sondaggi, Mélenchon si troverà nella migliore posizione per monetizzare politicamente la “pasokizzazione” e la prevedibile balcanizzazione del Partito Socialista. Con l’obiettivo, nel brevissimo periodo, di aumentare la sparuta pattuglia parlamentare del Front de Gauche. E con un occhio alle presidenziali del 2023.

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