L’onda lunga della sconfitta
1. Come si è giunti allo stato di totale annichilimento della sinistra di trasformazione nel nostro Paese? Come è stata possibile in Italia, realtà che vantava il maggior partito comunista d’occidente ed una sinistra extraparlamentare di tutto rispetto, la pressoché totale scomparsa della sinistra espressione del movimento operaio e la conversione al liberalismo della maggior parte dell’intellettualità un tempo di area comunista e socialista, critici o ortodossi che fossero?
Senza dubbio ha pesato la sconfitta maturata sul campo dello scontro sociale rappresentata dalla cosiddetta marcia dei “quarantamila” della Fiat del 1980[1], sicuramente l’implosione dell’Urss e dei paesi del patto di Varsavia sono stati interpretati come il fallimento non di “una” esperienza ma di “ogni” esperienza di assalto al cielo. Ma, probabilmente, la stessa forza dei partiti del movimento operaio è stata – paradossalmente – un elemento che ha annichilito il movimento operaio stesso a fronte dell’avvento del craxismo nel Psi prima e lo scioglimento del PCI successivamente. La loro caratteristica di essere soggetti di massa di milioni di iscritti e la presenza di una salda rete di associazioni collaterali ma fortemente intrecciate ai partiti medesimi, dal sindacato alle associazioni degli artigiani passando per l’associazionismo ricreativo e culturale, riassumeva entro il perimetro di partito – tendeva a riassumere per meglio dire – ogni elemento di soggettivazione di classe[2].
Le organizzazioni politiche del movimento operaio prevalevano a tal punto sulle dinamiche di movimento che al loro implodere, lungi dal liberare forze, hanno lasciato il campo disorientato. Sguarnite le casematte del movimento operaio, annichiliti e mutati di segno i centri di cultura. Così come l’enfasi – a volte millenaristica – rispetto al ruolo taumaturgico della classe operaia come soggetto rivoluzionario ha completamente fatto dismettere l’attenzione alla materialità delle condizioni di vita e di lavoro dei subalterni una volta sancita l’impossibilità della rottura rivoluzionaria (o del tendenziale riassorbimento di settori seppur significativi del mondo del lavoro nel mitologico ceto medio dei consumi).
La sconfitta, bruciante, subita sul campo a livello mondiale è frutto della controffensiva incarnata a livello mondiale da Reagan e dalla Thatcher, anticipata dal colpo di stato in Cile e nobilitata dalla costruzione dell’impalcatura teorica del neoliberismo prima e dalle retoriche manageriali poi. Ma la forza della reazione capitalistica è consistita soprattutto nella capacità di sussumere nel nuovo assetto politico ed ideologico le istanze di libertà ed autonomia creativa che avevano pervaso i movimenti degli anni Sessanta, disarticolando assieme alla fabbrica fordista il potenziale di critica antiautoritaria che volgeva a sinistra. Esemplare da questo punto di vista l’analisi offerta nel saggio Il Nuovo spirito del capitalismo di Boltanski e Chiapello, che pubblicato per la prima volta in italiano 2014 aveva visto la luce nel lontano 1999[3].
Per la realtà italiana il processo descritto dai due autori trova un preciso e puntuale riferimento nel Progetto Valletta della Fondazione Agnelli. Tale Progetto, attivo negli anni che vanno dal 1969 al 1974, è ritenuto unanimemente l’elemento fondante della psicosociologia in Italia ed ha costituito una tappa fondamentale nello sviluppo della formazione manageriale. Si trattava, in verità, di ricostruire la “coscienza di classe dei padroni”, scossa dalle contestazioni dell’operaio massa della fabbrica tayloristica, utilizzando strumenti come il T-Group, per riaffermare il controllo che dai luoghi di lavoro si estendesse sull’intera società. Rileggendo il materiale che è stato possibile rinvenire su quell’esperienza appare evidente come la destrutturazione della fabbrica fordista derivasse da scelte politiche inerenti il Potere e non solo da considerazioni squisitamente economiche e come tale destrutturazione fosse funzionale a nuovi assetti produttivi capaci di assorbire ed integrare la spinta creativa del movimento di contestazione. Una duplice operazione, decisiva per la riconquista dell’egemonia perduta da parte dell’impresa. La marcia dei 40.000 ha avuto una lunga laboriosa e tenace gestazione[4].
2. Abbiamo accennato al fatto della scomparsa delle esperienze politiche ascrivibili al filone comunista e socialista nel nostro Paese ed avanzato brutali ipotesi di interpretazione sulle ricadute sul piano della soggettività del Lavoro. Vi è un ulteriore elemento politico e teorico che colpisce: la totale mancanza di una significativa rappresentanza “neolaburista” del Lavoro che dalla lunga stagione degli anni Novanta arriva fino a noi e la pressoché totale scomparsa nelle elaborazioni e aree di applicazione del pensiero critico e progressista dei lavoratori e delle lavoratrici in carne ed ossa, con le loro brucianti necessità economiche e di senso.
Sul piano teorico può aver concorso – a nostro avviso – il peso e l’egemonia esercitata inopinatamente sul pensiero “critico” e democratico dall’opera di Hannah Arendt. Non ci riferiamo soltanto al credito accordato alla categoria di totalitarismo o alla lettura dei processi rivoluzionari destinati ab origine al fallimento, ma al disvalore assegnato al Lavoro ed al sostanziale fastidio provato nei confronti degli esponenti delle classi subalterne e popolari. Ci riferiamo alle pagine dedicate dalla studiosa alla “questione sociale”, dove la libertà – riprendendo l’assunto aristotelico – viene assegnata esclusivamente alla politica, sottraendo da tale dimensione temi sociali come il lavoro, i bisogni, la povertà, l’istruzione[5]. Se la questione sociale diviene questione pericolosa per la libertà politica, come avrebbe dimostrato l’esperienza del Terrore quando a scendere in campo furono i corpi reali di uomini e donne incatenati alla vita e bisognosi di pane, il fondo della filosofia politica sottesa è intrinsecamente reazionario. Come sostiene Ilaria Possenti nel numero monografico dedicato recentemente dalla rivista <<aut aut>> ai rapporti della citata autrice con la questione sociale
“Per Arendt […] i portatori di bisogni sono loro malgrado, ma inevitabilmente, portatori di violenza e tirannia. Per questo, ai suoi occhi, la politica non può e non deve occuparsi della questione sociale: per garantire il diritto di tutti a essere cittadini, occorre confidare in soluzioni “politicamente neutrali”, legate ai progressi dell’industria e dell’amministrazione”[6].
Ed ecco offerta una legittimazione teorica fintamente progressista alla spoliticizzazione neoliberale della questione sociale che è alla base delle nefaste terze vie di blairiana memoria e dei clintoniani ulivi mondiali. Che molto somiglia come postura allo sguardo di Alessandro Manzoni nei confronti degli assaltatori dei forni mossi dalla fame, identificati e bollati nell’antipatizzante profilo del “vecchio malvissuto”.
Andando più in profondità è la stessa lettura di Marx e del Lavoro operata dalla Arendt – ed ampiamente ripresa – che andrebbe radicalmente rimessa in discussione, seguendo la linea interpretativa suggerita da Luca Baccelli nell’articolo[7] dedicato alla autrice di Vita activa, dove viene ripreso e condensato un saggio che aveva visto la luce già nel 1991[8]. Il travisamento del concetto di lavoro risalirebbe alle lezioni del 1953 su Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale:
La lettura arendtiana di Marx, che proprio in questo testo trova una sua prima formulazione, si basa […] su un curioso equivoco che riguarda la concezione del lavoro: secondo Arendt, Marx identifica il lavoro come il metabolismo dell’uomo con la natura, ma per Marx il lavoro è l’attività che media, regola e controlla il metabolismo fra l’uomo e la natura[9].
C’è una robusta e sostanziale differenza tra il lavoro delle api o dei ragni e quello degli uomini associati:
Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente nella rappresentazione del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà[10].
Che non si da sinistra di classe e del lavoro senza Partito e senza una briccica di marxismo.
[1] G. Polo, C. Sabattini, Restaurazione italiana. Fiat, la sconfitta operaia dell’autunno 1980: alle origini della controrivoluzione liberista, manifestolibri, 2000.
[2] Sul rapporto partiti espressione del movimento operaio e movimento operaio stesso riteniamo illuminanti le considerazioni di M. G. Meriggi per la rivista online Machina della casa editrice Deriveapprodi a proposito dell’opera di E. P. Thompson sul formarsi della classe operaia inglese. La storia sociale – e la storia del lavoro – si occupava più delle “istituzioni” del movimento operaio che delle culture del lavoro e delle resistenze ai processi di resistenza alle trasformazione industriali e questo – fatta salva l’esperienza del filone operaista risalente a Raniero Panzieri e Mario Tronti – e questa era la spia della concausa della debolezza dell’autonomia operaia.
[3] L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, 2014, ma prima edizione 1999. Sulle trasformazioni del lavoro cfr altresì R. Castel, Metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato, Mimesis, 2019 (ma prima edizione 1995).
[4] Ci permettiamo di rimandare su questo aspetto a M. Brotini, Il Progetto Valletta della Fondazione Agnelli (1969-1974), Scuola di psicologia, Tesi di Laurea Triennale, Università degli Studi di Firenze, aa. 2012/2013, relatore prof. Paolo Barrucci.
[5] Cfr. la premessa di Ilaria Possenti al numero 386 del giugno 2020 di <> dedicato a Hannah Arendt e la questione sociale e Dal sociale al comune? Per una traduzione della libertà arendtiana, alle pp. 93-110.
[6] Ivi, p.5
[7] L. Baccelli, Un curioso equivoco? Arendt, Marx e il lavoro, in <>, cit., p. 153.
[8] L. Baccelli, Praxis e poesis nella filosofia politica moderna, Franco Angeli, 1991. Dello stesso si veda la lezione svolta durante la Scuola estiva di formazione politica organizzata alle Frattocchie da Senso Comune e Patria e Costituzione, dove i temi da noi segnalati vengono messi direttamente a confronto anche i saggi di Giovanni Mari e Remo Bodei (materiale rinvenibile nel profilo facebook di Senso Comune).
[9] Baccelli, Un curioso equivoco?, cit., p. 153.
[10] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, editori Riuniti, 1977, v.1, p. 212 (citiamo dalla traduzione di Luca Baccelli).