Cultura

Flat Tax: disuguaglianze e declino dell’Italia

2 Giugno 2018

Anche il «Piano Mellon», presentato al Congresso degli Stati Uniti di America nel 1923, era stato reclamizzato come una riduzione generalizzata delle imposte sui redditi. Che a trarne beneficio sarebbero stati i ricchi (il provvedimento prevedeva la riduzione dell’aliquota dal cinquanta al venticinque percento per le fasce contributive più elevate e dal quattro al tre per cento per le fasce più basse) venne tra gli altri puntualizzato dal deputato democratico del Massachusetts William P. Connery che disse: «quando vedo in questa proposta di legge Mellon un articolo che farà risparmiare allo stesso signor Mellon ottocentomila dollari di imposta sul reddito e seicentomila a suo fratello, non posso darle il mio sostegno».

Vale allora la pena di soffermarsi sulla madre delle fake news addotte a giustificazione dell’introduzione in Italia della cosiddetta flat tax. L’idea che ritorna è che imposte più basse ai ricchi incentivino risparmio, investimenti e crescita, oltre a rendere meno conveniente l’evasione e l’elusione, assicurando quindi maggiore fedeltà fiscale. Insomma, secondo il vangelo del libero mercato e i nostrani profeti, crescendo le disuguaglianze crescerebbe il paese, producendo benessere per tutti. Poco importa se persino l’Ocse e il Fondo Monetario Internazionale dichiarino l’esatto contrario e, per stare all’esempio precedente, autorevoli studi abbiano dimostrato che tra le fasi più acute di crescita di concentrazione della ricchezza nella storia degli Stati Uniti vi furono per l’appunto gli anni Venti del Novecento (Toninelli, 1993).

Le disuguaglianze altro non sono che il termometro della lotta di classe: maggiore è dunque il conflitto sociale minori sono le disuguaglianze e viceversa. Tuttavia la lotta di classe non si configura soltanto nei termini del conflitto tra classi proprietarie e lavoro dipendente all’interno di una stessa nazione ma anche come sfruttamento di una nazione su un’altra. Tale arricchimento della teoria generale del conflitto sociale consente di comprendere il significato più profondo dei recenti studi sull’evoluzione della disuguaglianza mondiale da parte di Milanovic (Ingiustizia globale, LUISS University Press, Roma, 2017). Se nel XIX secolo prevaleva la disuguaglianza economica all’interno delle nazioni, rispetto a quella tra paesi, nel XX secolo lo scenario si capovolse: quale che fosse la propria estrazione sociale era più importante nascere in un paese ricco. Nel secolo attuale la tendenza che si viene delineando rende nuovamente decisiva la posizione di classe all’interno della nazione. È accaduto che l’ascesa globale di Cina e India dopo il secolo dell’«umiliazione» (così i cinesi si riferiscono al periodo intercorso tra il 1839 e il 1949 quando il loro paese conobbe cioè un declino internazionale finendo sotto il giogo coloniale) ha contribuito a ridurre la diseguaglianza complessiva di reddito del mondo mentre all’interno dell’Occidente le diseguaglianze sono cresciute. A maggior ragione tra i paesi dell’Unione Europea ove la crisi economica ha accentuato i gap strutturali tra centro e periferia.

I dati resi disponibili dal «Forum Disuguaglianze Diversità» della Fondazione Basso, in occasione di un recente seminario, mostrano una sensibile crescita della quota di ricchezza netta personale detenuta dal percentile più ricco della popolazione adulta: si passa da circa il 16% del 1995 a oltre il 25% del 2014. Un quadro che verrebbe ulteriormente aggravato dall’introduzione della flat tax, di cui – è stato sottolineato nell’incontro – beneficerebbero le 2 milioni di famiglie più ricche d’Italia. Non solo l’Italia è divenuta a livello internazionale più periferica e subalterna anche sotto il profilo economico e rispetto a questo processo l’Unione Europea e il suo principale azionista sono tutto fuorché neutri, ma l’esplosione delle disuguaglianze di reddito interne è connessa – in ultima analisi – alla pressoché totale assenza di conflitto sociale in questi anni.

Il contrasto alla flat tax non è dunque materia soltanto di una sacrosanta opposizione parlamentare ma anche e soprattutto di mobilitazione sociale. Non si tratta di sterile apologia del conflitto, quanto di affrancarsi da quel discorso politico così invalso nella sinistra italiana degli ultimi anni che ne prescinde in favore di letture più o meno addomesticate del cambiamento. La storia dell’avanzamento sociale nel nostro paese del resto è la storia di una pressione da parte delle classi subalterne organizzate in grado di modificare le maggioranze dentro e fuori le istituzioni.

Da “il manifesto”, 29. 5. 2018

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