Cultura

Lavoro e libertà

12 Dicembre 2020

“Da quando gli uomini esistono, il lavoro ha occupato sempre la vita della maggior parte di loro. Lavoro, dura legge. Ma nulla impedirà all’uomo di soffrire, di lottare perché divenga un giorno la dolce legge del mondo”. Lucien Febre[1]

“Le mani, le mani dell’operaio mi hanno svelato ogni cosa. Per come quelle mani lavoravano, per come prendevano e riponevano lo strumento, per la calma, sicurezza e serietà con cui si muovevano – io vidi, capii che l’operaio stava riparando i suoi cavi, che li stava riparando per sé. A quella maniera possono lavorare solo le mani di un padrone. In ciò è il senso della rivoluzione. Sono certo, so che l’operaio, a cui adesso appartiene lo Stato, che è padrone in esso, saprà riparare tutto ciò che è stato distrutto. E non si limiterà a “riparare”, ma anche edificherà. Sarà per sé che adesso edificherà”. Evgenij Vachtangov Zachava[2]

La libertà nel lavoro

La fine del fordismo e l’avvento della rivoluzione digitale hanno avviato un filone di riflessioni sul lavoro che hanno posto al centro dell’attenzione la libertà, intesa come capacità di autorealizzazione, nel lavoro. Le lotte del movimento operaio del periodo della prima industrializzazione, fin dentro la fase fordista-taylorista, avevano invece posto al centro della loro iniziativa un conflitto che vedeva cercare sul piano politico il riscatto del Lavoro. Il Lavoro riscattava se stesso come soggetto politico attraverso la costruzione di partiti politici che portavano nelle istituzioni i bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici, sia nelle varianti riformiste e socialdemocratiche che in quelle radicali e rivoluzionarie. Il Lavoro si riscattava e trovava la sua legittimazione come mallevadore di una società nuova, non necessariamente trovando un senso diverso al momento lavorativo. La realizzazione era dunque esterna, secondo un topos negativo che andrebbe dal Lenin della NEP e della valutazione sostanzialmente positiva della direzione scientifica del lavoro allo stakanovismo staliniano. La mancata, e sostanzialmente impossibile, realizzazione nel lavoro si riscontrerebbe anche nelle file riformiste del movimento operaio: prova ne sarebbe la parola d’ordine – seppur suggerita dallo stesso Marx – di ridurre il tempo di lavoro per avere più tempo a disposizione per la realizzazione delle individuali aspettative e spinte alla creatività. Si sono interrogati sul piano filosofico su questo tema, con un esplicito ed esplicitato confronto e reciproco arricchimento Giovanni Mari col suo Libertà nel lavoro. La sfida della rivoluzione digitale[3] e Remo Bodei, che ha dedicato gran parte della sua ultima pubblicazione a queste riflessioni[4]. Per Mari, riprendendo le riflessioni di un sindacalista-intellettuale come Bruno Trentin[5], la libertà viene prima dell’uguaglianza e questa libertà consisterebbe nell’”autorealizzazione della persona nel lavoro”.[6] La fine del fordismo “ripropone la persona nel lavoro” e questo permetterebbe “di mettere in primo piano un’idea trascurata dalla dialettica economica” come quella precedentemente esposta. Oltre a definire il lavoro nella smart factory come caratterizzato dall’essere sostanzialmente un linguaggio, il lavoro 4.0 caratterizzato dall’Internet delle cose viene identificato come un atto linguistico performativo dove il dire è senza mediazioni il fare[7]. Questo radicale cambiamento farebbe divenire le “arti meccaniche” arti liberali, ricomponendo una dicotomia tra pensiero ed azione che per tutto il Medioevo aveva svalorizzato il lavoro manuale. Non solo, questo renderebbe possibile superare la contrapposizione aristotelica tra la libertà afferente alla sola sfera della politica: solo chi non lavora è libero. Solo la sfera della politica permette l’autorealizzazione proprio in quanto attività liberata dal bisogno di essere costretti a provvedere al proprio sostentamento attraverso il lavoro, occupazione che spettava ai servi. Solo il lavoro intellettuale degli uomini liberi, mai quello manuale apriva possibilità di autorealizzazione. Un cambiamento, quello che staremmo vivendo, dove macchine ed intelligenza artificiale, secondo una suggestione ripresa da Bodei ma non accolta da Mari, potrebbero sostituire il lavoro liberando l’uomo dal bisogno. Mari irrobustisce la sua proposta con una intrigante ricostruzione del rapporto tra le forme di autorealizzazione relative alle idee di lavoro succedutesi nella storia del pensiero e delle pratiche occidentali: la visione biblico-cristiana; la negazione del lavoro manuale e l’elaborazione di una idea di autorealizzazione intellettuale in Aristotele; la nascita medievale di un nuovo sentimento nei confronti del lavoro; l’idea di lavoro e di autorealizzazione nelle “arti meccaniche” ed artistiche nel Rinascimento; tecnica e lavoro nell’Encyclopédie di Diderot; le interpretazioni di Hegel e di Marx per arrivare all’autorealizzazione nel lavoro della conoscenza. Brutalizzando possiamo sostenere che parte significativa del ragionamento e della ricostruzione prende le mosse dalle considerazioni espresse da Richard Sennet nel suo L’uomo artigiano, dove la premessa del saggio è proprio “Fare è pensare”[8].  Nella storia conosciuta il lavoro avrebbe trovato la propria realizzazione interna nelle grandi figure degli artisti rinascimentali, che nella libertà esercitata anche nei confronti dal committente – derivante dalla quantità e qualità di sapere posseduta e dalla possibilità di tradurre l’idea in opera – erano stati in grado di riscattare il lavoro dalla condanna sia biblica che aristotelica. In questa lettura sia Hegel che Marx si rifarebbero direttamente alla rivalorizzazione del lavoro manuale ed artigiano operata dal Rinascimento. Secondo Mari infatti “Hegel può essere definito come il filosofo dell’esperienza del lavoro dell’artigiano fiorentino [il riferimento è principalmente a Benvenuto Cellini]”:

Se Aristotele è il filosofo della libertà e dell’autonomia nel lavoro intellettuale, Hegel è il filosofo della libertà (della coscienza) nel lavoro manuale: due forme di libertà che sono alla base della nostra cultura. Aristotele raggiunge il proprio scopo attraverso l’invenzione filosofica dell’ozio, Hegel attraverso quella di <<autorealizzazione>> nel lavoro.[9]

Se per Hegel, seppur sul piano della coscienza, è possibile realizzarsi nel riconoscere nella forma il concetto, il pensato nel realizzato sia che ci si trovi nella figura del padrone o del servo, per Marx –secondo Mari – l’autorealizzazione nel lavoro sarebbe invece sempre differita. Il fatto che il lavoro subordinato sia sempre estraniato e/o alienato negherebbe all’uomo sia la “gioia della produzione” che il “godimento del prodotto”:

La dottrina [dell’alienazione] è elaborata innanzitutto in nome della “libertà dell’uomo” che, a differenza dell’animale, “produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso”. Ma si tratta di una libertà che per Marx non è conquistabile all’interno e dall’interno del lavoro subordinato, una libertà di cui eventualmente si potrà parlare soltanto in un lontano futuro […][10].

Vero è che nessun pensatore e militante politico era riuscito a imporre la questione del lavoro per la comprensione dello sviluppo sociale come Marx seppe fare, ma il lavoro al quale il Moro farebbe riferimento sarebbe il lavoro uscito dalla rivoluzione industriale, dove ciò che viene indicato come perso sarebbe sostanzialmente il lavoro artigiano preindustriale, dotato di “indipendenza” e “attrattiva”. Marx oscillerebbe, nel Manifesto e nei Grundrisse per arrivare al Capitale, dalla possibilità di realizzarsi nel lavoro per passare ad un differimento teorico-politico che si tradurrebbe nella centralità della libertà dal lavoro, attraverso la drastica riduzione delle ore impegnate nel lavoro per avere il tempo da dedicare alle attività scelte e creative.  Il punto nel quale Marx si avvicinerebbe maggiormente al tema sarebbe da rinvenirsi nei Grundrisse, dove affrontando la libertà nel lavoro introduce la questione dello “scopo” per cui si lavora e quindi l’idea della “realizzazione di sé” nel lavoro, soffermandosi sul problema delle condizioni storiche dell’autorealizzazione e del lavoro “attraente”. Un Marx che risulterebbe quindi fecondo nella ripresa della centralità della figura dell’artigiano tipica di pensatori come Proudhon e soprattutto Fourier, dove il lavoro doveva darsi come prosecuzione del gioco del bambino. Ma a fronte delle forme storiche del lavoro, schiavistiche, servili e salariate il lavoro si presenta sempre come “repellente” e come “coercitivo”: la libertà e la felicità vanno dunque trovate nel “non-lavoro”. La liberazione nel lavoro troverebbe dunque spazio in un futuro utopistico ma possibile. Nel Capitale, secondo Mari, l’asse si sposta totalmente sulla libertà dal lavoro, da ottenersi quantitativamente attraverso la riduzione dell’orario e la redistribuzione del lavoro medesimo. Farebbe eccezione il cap. V, parte 1 del Primo libro, dove Marx studia e definisce il processo di produzione “in generale”. L’idea in generale del lavoro coinciderebbe col paradigma del lavoro manuale, o per meglio dire nel lavoro artigiano alla Benvenuto Cellini. In questo lavoro sarebbero presenti sia l’autorealizzazione che la libertà nel lavoro, infatti “quando Marx scrive che l’uomo nel dare forma alla natura non trasforma solo quest’ultima, <<ma cambia allo stesso tempo la natura sua propria>> […] pone il problema dell’autorealizzazione […]. Anche la libertà nel lavoro è presente, in quanto Marx sottolinea che […] il lavoro va inteso come realizzazione del <<proprio scopo>> da parte del lavoratore, uno scopo da questi <<ben conosciuto>> (perché corrisponde all’<<idea>> del prodotto che aveva in mente […].[11]

[Nel] paradigma metastorico di Marx (in realtà riferibile alla storica figura del moderno artigiano), lo scopo è conosciuto e volontariamente perseguito e nell’attività di trasformazione della materia prima avviene anche la trasformazione dell’identità del lavoratore: questi due elementi segnano, nella concezione di Marx, altrettanti punti a favore della libertà e dell’autorealizzazione nel lavoro[12].

Nel Capitale, sostanzialmente, il discorso su autorealizzazione e libertà nel lavoro verrebbe rimandato al tempo in cui la scienza sarà intrecciata e compenetrata col lavoro. La condizione che Mari fa presupporre a Marx per la risoluzione del tema si sarebbe realizzata proprio in questo lasso temporale. La terza e soprattutto la quarta rivoluzione industriale, grazie alla quantità di scienza e sapere necessarie al processo produttivo, ricollocherebbero l’uomo e le sue conoscenze al centro della scena: la fine del fordismo trascina la fine dell’operaio massa che subiva i processi di dequalificazione del lavoro descritti da Braverman[13], i nuovi sistemi di produzione darebbero vita ad una nuova figura sociale come il lavoratore della conoscenza entro il capitalismo cognitivo. Uno stadio dello sviluppo delle forze produttive che entro un involucro ancora capitalistico produrrebbe forme di socializzazione e di autonomia che renderebbero possibile la realizzazione nel lavoro, aumentando la stessa forza contrattuale di ogni singolo lavoratore. La rivoluzione digitale e l’industria 4.0, con il dire che diviene fare, chiuderebbe in maniera virtuosa l’aporia indicata da Aristotele. Una ricostruzione indubbiamente dotata di grande fascino, che prova a concettualizzare filosoficamente le trasformazioni in atto nei processi produttivi, che Mari ben conosce per la frequentazione ed i lavori pubblicati assieme ad esponenti sindacali che su questi temi hanno riflettuto a partire dal lascito di Bruno Trentin. Ma sottoposta da subito ad una serie di considerazioni critiche. Quanti sono realmente i soggetti coinvolti, ovvero se siamo di fronte ad un fenomeno capace di determinale la tendenza di fondo e generale di un’epoca. Occorre considerare la stratificazione dei modi di produzione e delle modalità concrete di lavoro che vedono crescere forme servili e schiavistiche. Inoltre, fatta salva l’osservazione che non siamo di fronte ad un lavoro “scelto”, chi decide cosa produrre? Ovvero, se anche nelle fabbriche intelligenti si realizzasse una forma di cooperazione sociale tra pari nel momento della produzione, chi ha sempre e comunque il potere della scelta dell’oggetto della produzione[14]?  Ma critiche ancor più radicali possono essere mosse all’impianto complessivo della proposta, a partire dall’analisi dei processi sottesi alla stessa Intelligenza Artificiale e della natura del capitalismo delle piattaforme, non assimilabile alla semplice economia dei lavoretti.  La Storia inoltre, forse, non procede naturaliter e crocianamente verso il Regno della Libertà.

Le sfide di oggi

Il 29 settembre di questo anno l’Istat ha pubblicato un Rapporto sull’organizzazione del lavoro in Italia, con particolare riferimento ad orari, luoghi e soprattutto grado di autonomia[15].

Il Rapporto è stato costruito in base ad un questionario finalizzato a valutare “in che misura il lavoratore possa esercitare una certa autonomia in base alle proprie preferenze e necessità”. Come incisivamente il Rapporto ricorda il tema dell’indagine non riguardava solo la conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro, ma era volto ad indagare i “margini di autonomia organizzativa, [le] forme di misurazione e [i] luoghi in cui essa viene svolta, [nonché] la penetrazione del lavoro nel tempo libero”[16]. Indicatori rilevanti ad illuminare il tema della libertà nel lavoro e di quanto la sfera lavorativa informasse di sé tutta la vita degli uomini e delle donne in carne ed ossa.

L’indagine ha interessato, e somma, sia i lavoratori dipendenti che quelli autonomi, dove per i dipendenti i vincoli vengono dal datore di lavoro e per gli autonomi sostanzialmente dai clienti.

Oltre 7 occupati su 10, pari a 16,6 milioni di lavoratori, non hanno la possibilità di decidere l’orario di inizio e/o fine della propria giornata lavorativa, il 16,4% avrebbe invece piena autonomia nelle scelte e il 12%, pur dichiarandosi autonomo sarebbe soggetto ad alcune limitazioni. I soggetti più forti con maggiori capacità di autonomia sarebbero gli uomini, gli ultra cinquantenni e quelli con titolo di studio elevato. All’altro polo stranieri, giovani, donne, persone con basso titolo di studio ed occupati con contratto a tempo determinato. I datori di lavoro e gli autonomi “puri” senza dipendenti godrebbero invece di ampia autonomia nella definizione della propria giornata lavorativa. Esiste inoltre una terza fascia che si colloca in una posizione intermedia, i cosiddetti dependent contractor, lavoratori indipendenti senza dipendenti ma le cui tariffe non sono stabilite in modo autonomo perché dipendono dal cliente, dal committente o da una terza parte, dove quasi la metà ha un orario stabilito da terzi. Il livello di autonomia nel definire contenuti e sequenza di lavoro per qualifica professionale vede manager ed assimilati al 78,3%, professioni esecutive nel commercio e nei servizi 31,9% e le qualifiche operaie al 27,4%. Questi dati dicono con una certa evidenza che il margine di autonomia possibile dipende da che ruolo viene svolto nella divisione verticale del lavoro e che la precarietà ed il part-time involontario riducono praticamente a zero ogni ipotetico margine di autonomia.

Si potrebbe sostenere: ma la cosiddetta digitalizzazione, robottizzazione e sviluppo dell’I.A., facendo scomparire la fascia bassa della polarizzazione del mercato del lavoro, preparano l’avvento ed incrementano i gradi di libertà della fascia superiore. Si tratterebbe quindi seguendo un principio “accelerazionista”[17] non di contrastare, bensì di secondare lo sviluppo tecnologico e la variazione della composizione organica del capitale, dove il lavoro non sarebbe più misura del valore, secondo una interpretazione del marxiano frammento sulle macchine avanzata da una parte del movimento operaista. Ma è all’ordine del giorno la piena automazione? Tralasciando l’assunto filosofico se può darsi creazione di valore in assenza di lavoro vivo, è proprio vero che la realtà stia andando, anche come tendenza, in questa direzione? Antonio A. Casilli fa parte di quella schiera di militanti e studiosi che nega recisamente questa lettura. Recentemente è stato pubblicato da Feltrinelli il suo lavoro sul tema, anticipato da conferenze, convegni e lavoro sul campo. L’edizione originaria, in francese, spiega a differenza di quella italiana già nel titolo quella che è la tesi di fondo: En attendant le robot. Enquete sur le travail du clic (2019). L’editore Feltrinelli ha deciso di rimarcare nel titolo un altro aspetto, certamente presentissimo, della ricerca: Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo.[18] Il saggio, che nasceva dal tentativo di indagare e generalizzare il digital labor, “si dà come obiettivo esplorare la dimensione umana invisibilizzata delle tecnologie che inquadrano il lavoro contemporaneo”:

Come Godot, i robot non arriveranno mai. Sono solo una promessa trascendente che ha l’effetto, del tutto immanente, di disciplinare il lavoro di chi foggia le nostre app, le nostre soluzioni smart, i nostri algoritmi”.[19]

Dietro l’IA ed il suo addestramento ci sono milioni di microlavoratori spersi in tutto il globo che compiono micromansioni per microcompensi. Non solo dunque il capitalismo delle piattaforme è consustanziale alla gig economy, ma lo stesso cuore della modernità tecnologica nasconde la rilevantissima presenza di una attività umana iper squalificata e ripetitiva. Quel che tiene assieme i due corni della questione è la doppia significanza e materialità del “lavoro digitale”: si può intendere e proporre infatti come l’automatizzazione completa dei processi produttivi coniugando le innovazioni nel settore della robotica con quelle dell’analisi dei dati. Oppure, al contrario, per indicare l’elemento umano che le tecnologie digitali contribuiscono a rendere produttivo, spingendolo a eseguire azioni che producono valore.

Il digital labor, per come lo intendiamo, definisce il processo di scomposizione in mansioni elementari e datificazione delle attività produttive umane che caratterizza l’applicazione nella sfera economica delle tecnologie dell’intelligenza artificiale e di apprendimento automatico. Si tratta di una costellazione di pratiche all’incrocio tra lavoro atipico, lavoro indipendente, lavoro a cottimo microremunerato, hobby professionalizzato, passatempo spontaneo e pura e semplice effusione spontanea di dati[20].

Questi lavoratori – in quanto produttori di valore – sono milioni, e crescono al crescere della diffusione della digitalizzazione, dell’Intelligenza Artificiale e dei programmi e/o macchine che apprendono: sono consustanziali a tale sviluppo ed ineliminabili, semplicemente non li vediamo perché non li cerchiamo, irretiti dal mito dell’automazione totale e della sostituzione del lavoro umano da parte delle macchine[21]. Un pensiero ed una pratica che voglia essere – e si dica – critica non può volgere altrove lo sguardo, intrattenendosi col tema della servitù volontaria come paura di essere liberi. Magari recuperando l’assunto che la caratteristica peculiare del capitalismo possa sempre risiedere nella brutale formulazione marxiana D – D’, dove D è l’investimento iniziale che tramite la produzione di merce che all’atto della sua vendita rende una somma di danaro maggiore dell’investimento iniziale (D’).

[1] L. Febre, Travail: évolution d’un mot et d’une idée, in <<Journal de psychologie normale et pathologique>>, 41, 1948, pubblicato in italiano nel 1966 e nel 1976 vede ora una significativa riedizione a cura di Fabrizio Loreto assieme ad altri studi del fondatore – assieme a Marc Bloch – della “Scuola delle Annales” sul sindacalismo francese e sulla storia del movimento operaio, cfr. L. Febre, Lavoro e storia. Scritti e lezioni (1909-1948), Donzelli, 2020, pp. 103-114.

[2] E. V. Zachava, Vachtangov i ego studija, Leningrad, 1927, citato in G. Carpi, Russia 1917. Un anno rivoluzionario, Carocci, 2017, p. 184; Carpi premette la seguente osservazione alla citazione: “Il grande regista […] inizialmente aveva accolto l’Ottobre con somma riprovazione, ma ora osserva per strada un operaio ritto su un palo della corrente, intento a riparare i cavi elettrici della tranvia, e capisce che indietro non si torna”.

[3] G. Mari, Libertà nel lavoro. La sfida della rivoluzione digitale, Il Mulino, 2019.

[4] R. Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, Il Mulino, 2019.

[5] B. Trentin, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Feltrinelli, 1997.

[6] Mari, op. cit, p. 9.

[7] Ivi, pp. 28-42.

[8] R. Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2008.

[9] Mari, op. cit, pp. 102-103.

[10] Ivi, p. 104n.

[11] Ivi, p. 111.

[12] Ivi, p. 112.

[13] H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, Einaudi, 1978.

[14] Ci riferiamo alla presentazione del libro di Mari tenutasi presso le Murate di Firenze il 21 febbraio 2020 per IDENTITIES. Leggere il contemporaneo con l’autore, Sergio Givone, Alessio Gramolati, Ubaldo Fadini, Annalisa Tonarelli e Franca Maria Alecevich.

[15] Istat, L’organizzazione del lavoro in Italia: orari, luoghi, grado di autonomia, 29 settembre 2020.

[16] Ivi, p. 1.

[17] Cfr. N. Srnicek, A. Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero, 2018.

[18] A. A. Casilli, Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo, Feltrinelli, 2020.

[19] Ivi, p. 10.

[20] Ivi, p. 38.

[21] Cfr. E. Brynjolfsson, A. Mc Afee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, Feltrinelli 2015 (uscito nel 2014).

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