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Un reddito contro la cittadinanza

1 Gennaio 2019

Dopo un lungo braccio di ferro con Bruxelles ed un turbolento passaggio al Senato, la legge di bilancio è stata definitivamente approvata dalla Camera dei Deputati. All’interno del testo, la propaganda martellante del governo giallo-verde non ha mancato di sottolineare come siano stati previsti gli stanziamenti destinati alle misure simbolo dei due partiti di maggioranza: quota 100 ed il reddito di cittadinanza. Ciò su cui la propaganda di maggioranza ha insistito meno è, invece, come le misure siano state fortemente ridimensionate dalla trattativa con la Commissione Europea. Se, per un verso, al reddito di cittadinanza (ReC) saranno destinati solo 7 miliardi di euro rispetto ai 9 originariamente previsti, per l’altro, le modalità di erogazione del ReC – previste del prossimo decreto – rischiano di mutarne geneticamente l’impostazione, trasformandolo in un vero e proprio boomerang sociale.

Eppure, all’alba del MoVimento, i guru cinque stelle – Grillo in primis – hanno spiegato a tutti come il reddito che avevano immaginato fosse una misura universale per garantire a chiunque una forma di sostentamento a prescindere da condizioni personali o sociali. Si trattava, nella versione originale, di una forma di ‘reddito di base’. Un reddito – appunto – erogato a tutti e mirante a liberare dallo ‘stato di bisogno’ il beneficiario. La sua erogazione non avrebbe dovuto essere subordinata alla soddisfazione di alcun particolare requisito, se non eventualmente quello reddituale. 

Questo reddito di base – diverso dal costruendo ReC – sarebbe stato, in linea teorica, se non un’abolizione della povertà, un significativo strumento di difesa delle categorie sociali più vulnerabili. Per fare un esempio, attraverso il reddito di base si sarebbe garantito in questo modo al titolare, un margine di scelta più ampio al momento di accettare una proposta di lavoro, potendo questi contare sempre e comunque su una piattaforma economica minima per attendere un’offerta dignitosa. D’altro canto la stessa somma avrebbe potuto essere utilizzata per altri fini come formarsi, per migliorare le proprie aspettative retributive oltre che le proprie competenze, o dedicarsi ad altro, come all’educazione dei figli. Così immaginato, il reddito di cittadinanza – simile a quello sperimentato in alcuni piccolissimi centri della Finlandia – aveva ampi margini di sviluppo, ma garantiva in ogni modo un ulteriore grado di libertà al cittadino sia in quanto tale, che in quanto lavoratore.

Peccato che la storia vera del reddito di cittadinanza sia andata in tutt’altro senso. I dati provenienti dal MISE mutano di giorno in giorno, ma pare che di quella misura immaginata in origine ormai sia rimasto veramente poco. Un primo aspetto che occorre prendere in analisi è lo stanziamento, fissato in 7,1 miliardi per l’anno 2019. Calcolando un importo medio di 780 € per ciascuna prestazione, potrebbero essere erogate nel corso dei dodici mesi soltanto 750.000 prestazioni. L’inadeguatezza assoluta del ReC emerge già dai numeri, dunque, se consideriamo che in Italia ben 1 milione e 778 mila nuclei familiari –  e cioè 5 milioni e 58 mila individui – vivono già in condizioni di povertà assoluta.mE allora, delle due l’una, o il reddito di cittadinanza uscirà talmente depotenziato da non poter neppure alleviare lo stato di povertà di un soggetto (basterebbero 300 € ad alleviare la povertà di un residente a Milano?), o si darà il via ad una corsa agli sportelli ed all’ennesima lotta dell’ultimo contro il penultimo.

Anche dal punto di vista dell’impostazione teorica, poi, il reddito di cittadinanza prefigurato dal governo possiede due evidenti limiti. Come ha ben osservato Chiara Saraceno, il primo limite della logica di questo ReC quello di considerare la povertà una conseguenza esclusiva della disoccupazione e non anche a redditi da lavoro troppo bassi, part time involontario o altre contingenze economiche. Il quadro è infatti ancora troppo ambiguo per comprendere se vi saranno anche delle misure ad integrazione dei redditi da lavoro ritenuti non sufficienti a garantire un tono di vita dignitoso.

Il secondo limite riguarda un aspetto di teoria economica su cui si fonda il ReC, e cioè che la condizione di disoccupazione sia dovuta solamente al mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro, e quindi ad esempio all’inefficienza dei centri per l’impiego. Si esclude, dunque, che la disoccupazione possa essere dovuta ad una condizione di crisi della domanda interna, ormai soffocata dalla crisi strutturale dell’economia italiana, su cui ‘la manovra del popolo’ sostanzialmente tace limitando consistentemente gli investimenti pubblici ed anzi rilanciando il discorso privatizzazioni. A questa visione certamente miope e antikeynesiana, fa da pandant il mastodontico dibattito sull’estensione della platea destinatari. Un dibattito che si è incentrato sostanzialmente sulle contromisure da introdurre affinché i ‘fannulloni’ non lucrino impuniti un reddito immeritato. Già. Perché, si è detto, il ReC si trasformerebbe in una forma “becero assistenzialismo” per “i furbetti” (neologismo ormai rivendicato anche dalla sinistra di renziana memoria) se venisse erogato a chi semplicemente sta sul divano aspettando che un’offerta gli piova dal cielo.  Questa sorta di considerazione del povero come un soggetto debole moralmente e parassitario, desideroso solo di arricchirsi a spese della società in cui vive, ricorderebbe un discorso dickensiano se non fosse realmente la dialettica politica dell’Italia del XXI secolo.

Per fortuna, per placare il rischio che il dannato povero si approfitti delle provvidenze economiche che la società gli mette a disposizione – dopo averlo umiliato nel dibattito pubblico – si è passati a delle pessime contromisure. Prima, il governo giallo-verde ha puntato tutto sull’obbligo di accettare una proposta qualsiasi di lavoro (anche scadente) dopo averne ricevuto tre (magari altrettanto scadenti). Da ultimo si è deciso di eliminare qualsiasi criterio di prossimità territoriale nella presentazione delle offerte di lavoro al beneficiario. Nello specifico, la prima offerta potrà essere nel raggio 100 chilometri, la seconda di 250, mentre alla terza occorrerà spostarsi in qualsiasi luogo d’Italia, pena la perdita del reddito. Per fare un esempio banale: un catanese potrebbe facilmente dover scegliere se trasferirsi a Belluno per svolgere un lavoro poco qualificato e mal remunerato o tornare nella condizione di indigenza da cui proviene senza beneficiare del reddito.

Lasciamo al lettore il compito di immaginare le lacerazioni sociali che questi fenomeni potrebbero creare per una misura che si applica a soggetti inseriti in un nucleo familiare. Ma questo danno solo potenziale, si aggiunge però una beffa certa. Da alcuni esponenti del governo, tra cui il sottosegretario leghista Siri per tutti, continuano ad arrivare ammiccamenti al mondo delle imprese, che Lega e Cinque Stelle vorrebbero trasformare nei veri destinatari del reddito. Proprio così. È allo studio del governo un sistema di nuova concezione in cui a beneficiare del reddito di cittadinanza non sarebbero stati i cittadini o i lavoratori in difficoltà, ma le imprese che assumono (e nello specifico le imprese che assumono un lavoratore già destinatario di una prestazione ReC). L’impresa che decida di assumere un beneficiario ReC, infatti, riceverà direttamente dalle tasche dell’erario almeno 5 mensilità del reddito di cittadinanza originariamente destinato al singolo affinché trovi lavoro. La somma da versare al cittadino in difficoltà sarà dunque integralmente stornata all’imprenditore che lo assume, e che quasi certamente non versa in stato di bisogno.

Altre voci, invece, parlano di beneficiare le aziende con uno sgravio contributivo – ovviamente pagato dallo Stato con quegli stessi 7 miliardi già insufficienti per le prestazioni – per chi assume un beneficiario di reddito di cittadinanza. Anche omettendo di parlare del doppio vantaggio che riceve l’imprenditore – che da un lato potrà estrarre ricchezza dal lavoro del dipendente che assume e dall’altro beneficiare dei soldi che a lui erano destinati – questa scelta dovrebbe mostrare in tutta la sua evidenza la doppia morale del governo: pronto a correre ai ripari contro il povero che tenta di lucrare una prestazione senza fare nulla, ma ben disposto ad erogare la somma all’imprenditore che compie una delle sue funzioni nel ciclo produttivo: assumere manodopera.

Come dire, l’assistenza non va bene quando il destinatario ne ha veramente di bisogno, ma è cosa buona e giusta quando il beneficiario dell’assistenza appartiene ad un gruppo socio-economico in cui si intende ampliare il proprio bottino elettorale. Ed ecco che – siccome i nomi sono fondamentali per plasmare la realtà ed indirizzarla – nel dibattito politico la destinazione di una somma a chi ha bisogno è diventato “assistenzialismo”, mentre quella all’imprenditore che assume è diventato “incentivo”. Oltre alla diatriba nominalistica, questo premio alle imprese potrebbe determinare delle particolari implicazioni a livello macroeconomico sulla domanda di lavoro. Non è irragionevole credere che le imprese tenderanno a preferire al momento dell’assunzione soggetti già beneficiari di ReC per ottenere lo sgravio o un lucro diretto. A sua volta, questa tendenza, in un regime di licenziamento ad alta flessibilità (leggasi precarietà) come quello italiano, potrebbe creare anche una prassi delle imprese a licenziare per poi riassumere, creando una platea di lavoratori che passa di continuo tra lo stato di occupazione (meno costosa per l’impresa) e il reddito di cittadinanza, come del resto avviene già nella Germania dell’Hartz IV. Ancora, si corre il rischio di canalizzare buona parte delle assunzioni su questo binario preferenziale, portando ad una riduzione del numero di assunzioni per i soggetti che non beneficiano del ReC, non potendo in tal caso i loro datori lucrare sull’assunzione. 

Visto così, il ReC si inserisce in quell’ottica di ‘patto di puro potere’ tra le due anime del governo, sempre e comunque accomunate da questo fervore ideologico nei confronti della piccola borghesia imprenditoriale. Il reddito di cittadinanza – c’è da scommetterci – sarà una misura blanda e depotenziata, in cui il modesto flusso delle risorse rischia di perdersi in una serie di rivoli: il potenziamento dei centri per l’impiego, il finanziamento della decontribuzione, la creazione degli uffici necessari per lo sviluppo della prestazione. 

L’unica utilità che potrà avere il ReC sarà quella di una carta da giocare nello scontro elettorale, sia dalla lega che dai grillini. Da un lato, i Cinque Stelle – più vicini alla pancia delle classi depauperata dalla crisi – potrebbero mettere sul piatto in campagna elettorale l’adozione di un reddito di cittadinanza, pur svuotato nei contenuti essenziali e nella filosofia di fondo (è già prevedibile il primo sussulto di Di Maio che dirà noi manteniamo le promesse elettorali: poco importa se queste vengono mantenute in maniera pessima). Dall’altro, la Lega potrebbe rivendicare di aver comunque soddisfatto gli interessi della sua base di classe, cioè la piccola borghesia imprenditoriale del nord Italia, garantendo a questa un grande risparmio sul costo della manodopera, già stagnante da decenni, e comunque uno storno delle risorse a suo esclusivo vantaggio, non certo a vantaggio del povero.

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